Qual è la natura del potere politico? Su cosa si basa lo jus che intitola alcuni a far fare ad altri ciò che questi non vorrebbero fare? Perché alcuni hanno il diritto di mettere a morte altri o mandarli al fronte? In queste ore drammatiche per un’Europa che ancora una volta rischia – Dio non voglia – di dover combattere l’Ultima Guerra Mondiale la domanda ha senso proprio, e pure nella sua cruda naïveté.
L’antropologia classica aveva elaborato il concetto di divinità regale anche e proprio per rispondere a quel tipo domanda: semplice al punto di essere quasi deduttiva. Il potere ha origini e giustificazioni di ordine soprannaturale. Il potere è sovrano poiché di origini divine ergo il Sovrano è divino e divino è il suo volere. La sequenza assiomatica era sostenuta da una varietà di esempi etnografici che testimoniavano la diffusione dell’istituzione del Re Divino presso formazioni sociali le più distanti fra loro nel tempo e nello spazio. Dagli Ali’i Hawaiani agli Inka, dai Monarchi Traci agli imperatori Assiri passando dai Faraoni fino ai sovrani Shilluk e Kuba dell’Africa, si impone il concetto secondo il quale esiste una sostanza particolare che circola all’interno della discendenza regale tale da assimilare il sovrano alla Divinità, della quale è l’incarnazione in terra. La morte del sovrano – pietra d’inciampo sulla quale ci si potrebbe aspettare che caschi l’asino – viene rimediata come necessario momento di passaggio verso l’apoteosi nell’eternità divina.
«Il Re è morto, viva il Re!», recita la formula di annuncio della morte dei sovrani britannici. Essa si riferisce tanto al passaggio all’Altra eterna vita del sovrano defunto – che l’Altissimo avrà avuto la gentilezza di salvare obbedendo graziosamente agli ordini – quanto all’inaugurazione di un nuovo Regno da parte del successore. In altre parole: la sostanza della quale è fatta la sovranità non muore mai.
La letteratura antropologica riporta una varietà di escamotages per mantenere e rafforzare la fiction della divinità regale. I Kuba Bushoong del Kasai (Kongo) ricorrono ad una complicatissima messinscena rituale che ripercorre ad ogni successione le tappe del mito di fondazione della dinastia reale dimodoché ogni sovrano si manifesta come una sorte di clone del mitico Fondatore. Gli Shilluk – come tanti altri in giro per il mondo – vanno meno per il sottile e mettono deliberatamente a morte un sovrano non più in grado di svolgere le funzioni di anima motrice del proprio popolo: faut de mieux una morte «artificiale» è il modo per perpetuare la fiction dell’immortalità del sovrano – e poi via via con la mummificazione, la ricostruzione del corpo del sovrano con materiali artificiali e chi più ne ha più ne inventi.
Il 6 marzo del 12 a.C. Cesare Ottaviano Augusto, già eletto Imperatore da un senato paralizzato, esausto e imbelle, fu insignito del titolo di Pontefice Massimo. L’istituzione è di probabile origine etrusca e pare fosse stata adottata e adattata al severo e sobrio ordinamento romano dal grande Numa Pompilio (753-673 AC), istitutore e riformatore del palinsesto della religiosità romana. Il titolo di Pontifex, «colui che fa da ponte fra gli dei e l’umanità» conferito a chi già era stato insignito del titolo di Imperator inaugura, malgrado chi rivendicasse le diremmo oggi «laiche» sobrie virtù repubblicane, secoli violenti nei quali la disputa sulle «quote Dio» e le «quote Cesare» saranno causa di guerre e massacri – dolore in Europa come altrove.
Concetto di ascendenza culturale orientale – certo non Semitica o Greca né Romana – l’Imperator Divinus rimane presso i Romani, comunque, sempre concetto «fra virgolette», «per così dire». Un po’ come quello di Cavaliere della Repubblica per chi non ha mai visto un cavallo. Certo non ci credeva Marco Aurelio, troppo intelligente, lui, grande Imperatore che si descriveva segretamente Servo dello Stato (quello sì reale e regale) per non capire che si trattasse di un instrumentum regnii necessario e di cattivo gusto. Gli stessi Governatori romani – primo fra tutti Plinio il Vecchio come dalla corrispondenza accorata col Divino Imperatore Traiano (altro grande scettico) – imploravano i dissidenti cristiani di fare i sacrifici alla Divinità Imperiale implicando che tutto sommato si trattasse di un atto di ubbidienza civica formale e anche meno doloroso che non fosse il pagare le tasse.
Niente da fare. C’è oggi chi si ritiene un Cesare, un Kaiser, uno Czar. E il peggio è che – nell’epoca in cui le ideologie sono messe al bando – non è più dato sapere unto da chi, percome e percosa.