L’eccelsa discussione sui tortellini dimostra che il tema culinario è il vero argomento sensibile del nostro tempo. Per chi si fosse distratto, ricordo che la questione era la seguente: in occasione della festa del patrono di Bologna, San Petronio, il comune e la curia hanno pensato di affiancare ai tradizionali tortellini di maiale una piccola quantità di tortellini con il ripieno di pollo per venire incontro ai musulmani. Apriti cielo: Matteo Salvini ha sparato a zero (quando si spara a zero, il voto d’aria non può che essere 0) per la macchia islamica inferta alle tradizioni italiane dal «tortellino dell’accoglienza».
Il leader leghista si è scagliato contro quelli che dimenticano le proprie radici e «negano la nostra storia, dal tortellino al crocefisso». «Il tortellino senza carne? Come proporre il vino senza uva». Il meccanismo delle fake news prevede quasi sempre anche un lieve, seppur grossolano, spostamento del discorso. Primo: è vero che il tortellino al pollo è un tortellino senza carne? No, è un tortellino con carne di pollo. Secondo: cosa c’entra il tortellino con il crocifisso e con il vino? Niente: anzi, un fervente cattolico dovrebbe essere disgustato dal blasfemo accostamento crocefisso-tortellino. Terzo: cosa c’entra il maiale con le tradizioni? Niente, perché il tortellino in origine non conteneva il macinato di prosciutto e mortadella che conosciamo oggi. Gli studiosi di etimologia gastronomica (quelli del Gambero Rosso in primis, 6–) segnalano vari tipi di pasta ripiena già nel medioevo, ma sono andati a ripescare il primo trattatista che descrive il vero e proprio proto-tortellino.
È il settecentesco Francesco Leonardi, autore della monumentale opera L’Apicio moderno. Ecco la sua ricetta: «Pestate nel mortajo del petto di pollo arrosto, aggiungetemi midollo di manzo ben pulito, parmigiano grattato, un pezzetto di butirro, sale, noce moscata, cannella fina, e due rossi d’uova crudi…». Il maiale? Neppure un grammo. Leonardi era un fondamentalista islamico? Neanche per sogno, era stato il cuoco della cattolicissima imperatrice Caterina II di Russia.
La verità è che il maiale nel ripieno arriva tardi, nel 1871, e viene inserito dentro i cosiddetti «cappelletti». Salvini dovrebbe sapere che studiare e documentarsi prima di parlare è un precetto che appartiene alla grande tradizione politica italiana e in genere occidentale. Un grammo di filologia sarebbe indispensabile anche nel ripieno dei tortellini. Dunque, ha ragione Romano Prodi (5) quando risponde che se con la libertà si offendono le tradizioni, pazienza. Ma bisogna pur precisare, testi alla mano, che nel caso-tortellini si tratta di libertà e basta, senza nessuna offesa a nessuna tradizione.
Altro tema culinario molto caldo. Le sardine. Come si sa, le sardine sono un movimento di piazza, nato qualche settimana fa a Bologna, che si oppone al populismo trionfante. Queste sardine vogliono fermare l’avanzata di quella destra che rovescia sui cittadini bugie e odio. Sono così tante, le sardine, che per stare in una piazza devono stringersi come sardine, appunto. Da qui il nome. Ovvio che Salvini, tanto per gradire, ha subito gettato una secchiata di fango sui pesciolini ribelli (accusati di essere manovrati dal Partito democratico…) e ha poi risposto mobilitando anche in Rete i «gattini salviniani», che dovrebbero essere capaci di papparsi le sardine in un solo boccone. Questo è il triste livello della contesa politica italiana, da osteria appunto.
Dove (in osteria) si starebbe meglio senza politici e con qualche scrittore che se ne intenda davvero di cucina senza utilizzare gli animali come bandiere politiche. Per esempio Gianni Brera, che scrisse un magistrale elogio delle rane: «Le rane sono la manna dei poveri» (6– alle rane e a Brera: il meno è dovuto all’enfasi lombarda a volte dubbia, come è stato detto). Brera è nato cent’anni fa a San Zenone al Po e questa puntata dei Voti d’aria sulle osterie è l’occasione giusta per ricordarsene, visto che il maestro dei giornalisti sportivi era anche un grande gourmand. Le rane, dunque. La paginetta breriana è un capolavoro: «Non comportano rischi di sorta: si colgono la notte sotto le andane di erba lasciata a infienare; si pescano di giorno con un semplice straccetto rosso legato a una lenza: se ne rifà il gracidìo strizzando la lingua contro il palato e si fa ballare lo straccetto finché il ranocchio più baldanzoso lo agguanta: prima che lo molli, si lascia strappare fuori: e quando è in aria lo ghermisce qualsiasi rivaiolo senza allergie per il viscido».
Un maestro non solo di sport, il vecchio Gioanfucarlo (Brera). Quando parla di rane e di «ranè», di guazzetto e di pastella, di fritto e di soffritto, sa di che cosa parla. Come quando tratta di «contropiede» e di «forcing», del- l’Abatino Rivera e di Rombodituono Gigi Riva. Sa quel che dice. Virtù divenuta oggi piuttosto rara. Ecco perché quella del filologo è la professione più resistenziale che esista: la disciplina di lotta del futuro. Il sogno sarebbe un popolo di sardine filologiche.