«Democrazia è anche ridere»: s’intitolava un articolo di Giovanni Arpino, pubblicato su questo settimanale, tre decenni fa, e per niente invecchiato. Lo scrittore torinese raccontava i protagonisti della politica di allora, proprio alla luce delle loro reazioni alla satira: un Kohl impassibile, un Mitterrand menefreghista, un Pertini collerico, e un Andreotti maestro della replica. Il più sotto tiro era stato Reagan, il quale, a sua volta, ricorreva a umoristi di professione che gli suggerivano le battute giuste per affrontare una schermaglia, tutt’altro che marginale. È, infatti, su questo terreno scivoloso, accettando o respingendo la satira, che i politici mettono alla prova la capacità o incapacità di svolgere un ruolo, eminentemente pubblico. Esposto, quindi, al rischio della presa in giro, che rappresenta, comunque, una forma di popolarità: gonfiata, ma non inventata dall’era mediatica.
Ha, invece, radici antiche il rapporto fra politica e umorismo, che doveva lasciare segni indelebili nella letteratura, nel teatro, poi nel cinema e infine in tv. Mentre, sul piano dei comportamenti, doveva consolidare una sorta di complicità, reciprocamente utile. Sono, infatti, i governanti, i detentori del potere, i dirigenti dei partiti a fornire, magari involontariamente, la materia prima ai professionisti della satira. Dal canto loro, vignettisti, caricaturisti, imitatori, attori comici, sull’osservazione maliziosa, o maligna, dei politici ci campano. Si stabilisce così una convivenza, o connivenza, che si manifesta in forme e con conseguenze ben diverse. Questione, evidentemente, di libertà e tolleranza, di cui battute, barzellette, caricature diventano indizi rivelatori: registrando, come un termometro, i gradi del clima circostante. I risultati confermano un’ovvietà, di cui andar fieri: è nei paesi democratici che la satira trova lo spazio più propizio. Ma è anche questione di talento. Non è scontato che i migliori umoristi, capaci di usare la penna, la matita, il gesto, la parola, per deridere e sfottere i potenti, appartengano al mondo libero. La vena umoristica riesce a scaturire anche nei regimi totalitari, sfidando leggi repressive e polizie segrete e assumendo persino il ruolo di una forza d’opposizione che si fa sentire.
Democrazia è anche ridere, diceva Arpino. Non in tutte le democrazie, avviene. La libertà di fare non coincide, automaticamente, con la capacità di fare. Qualcosa che ci concerne da vicino, in un paese, benestante e ben funzionante: soltanto nelle statistiche. Nella realtà quotidiana, prevale la percezione opposta, che induce a compiacersi di guai che potrebbero diventare catastrofi: finanziarie, sociali, climatiche. È, insomma, il vizio, tipicamente elvetico, della seriosità, come denunciava, recentemente, sulla NZZ, un articolo dal titolo perentorio: «Mehr Witz, bitte!». L’autrice, Claudia Mäder, vi lanciava un SOS, destinato, innanzi tutto, agli addetti ai lavori della politica e dell’informazione, responsabili di un linguaggio piatto, improntato alla gravità, al moralismo, alla musoneria. E chiuso alla fantasia e alla leggerezza, fraintese banalità. Tutto ciò ci sta privando della valvola di salvezza dell’umorismo. Un’arte che, a sua volta, non essendo esercitata rischia l’estinzione.
In proposito, la situazione ticinese è particolarmente delicata. Ci si muove in dimensioni che limitano, materialmente e psicologicamente, lo spazio libero da interferenze, a disposizione degli umoristi. O, forse da noi, mancano gli umoristi, almeno quelli che si affidano alla parola parlata, che non è il nostro forte. La categoria, del resto, non abbonda neppure oltre frontiera. Anche in Italia, il rapporto politica umorismo segna il passo. Come si è visto durante l’ultima estenuante campagna elettorale i comici sono stati messi a dura prova. La ripetitività dei discorsi dei candidati in lizza non poteva che ripercuotersi, fatalmente, nelle imitazioni e nelle battute dei comici. Dopo la stagione di Crozza, un guizzo irridente è arrivato da Gene Gnocchi. Che la crisi, insomma, sia contagiosa: dall’economia all’umorismo?