Si accumulano, nelle cassette della posta e sui telefonini, i messaggi autopromozionali dei candidati alle comunali del 18 aprile. E si accumulano, nei pensieri e nei sentimenti degli elettori, le perplessità di fronte a una scelta, più che mai imbarazzante. Lo è, soprattutto, per una categoria di cittadini, in incessante crescita, cui appartengo. Si tratta non soltanto delle donne, prive dei diritti politici sino al 1971, ma della moltitudine di cittadini per i quali il voto rappresenta qualcosa da inventare di volta in volta. Un impegno che, invece, non spetta ai militanti per nascita, cioè gli eredi di una tradizione familiare partitica e ideologica, da continuare senza se e senza ma. Quest’anno, poi, anche il Covid ha avuto la sua parte. Contribuendo, anche alle nostre latitudini, ad allargare il distacco fra noi e loro: noi cittadini che subiamo i provvedimenti illiberali che loro emanano. Da qui il fenomeno, ormai di dimensioni mondiali, dei politici sotto processo che, nei paesi democratici, rischiano di perdere non soltanto la popolarità ma addirittura la poltrona. Traballa persino quella di Angela Merkel, emblema di stabilità e buon governo. Se l’è cavata, un po’ da saltimbanco, l’estroso Boris Johnson, con un’inversione a 180 gradi che ha assicurato al Regno Unito la vittoria sul virus. Mentre in Italia, i malumori provocati dalle gestione della pandemia, e relativi ristorni, sono costati la presidenza a Conte, sostituito da Draghi. Come dire, un glamorous premier all’italiana cede il posto a un austero alto funzionario europeo.
Ora questo cambio della guardia, così radicale, apre interrogativi proprio sulla figura del politico in generale: qualcosa che, sia pure in termini ben diversi, concerne anche la realtà svizzera e persino ticinese. Questione di stile, insomma. Da chi vogliamo essere rappresentati nei parlamenti e al governo? Meglio il modello Draghi, poche parole e concretezza, completamente assorbito dalla propria carica e senza concessioni di sorta, sul versante personale? È sposato, ma della moglie, della famiglia, di eventuali svaghi, non si sa nulla. Ciò che, in tempi di social e di talk shows, a cui il Super Mario è allergico, rappresenta un’eccezione. E, addirittura, può sembrare un ritorno al passato. Qualcosa che era la regola per i comportamenti dei politici di casa nostra, in un’epoca, dove pubblico e privato erano ambiti rigorosamente separati.
Soltanto a partire dalla seconda metà del secolo scorso, si cominciò a parlare d’immagine. I politici si trovarono costretti a comparire attraverso le foto grigie sui giornali e qualche dibattito televisivo, ma poco altro. Tutt’al più un pettegolezzo, sotto banco. Nei loro confronti doveva svilupparsi un diffuso rimpianto che, complice la nostalgia che va di moda in ogni ambito, li ha idealizzati, forse anche al di là dei loro meriti effettivi. Sui quali, per carità, non sono in grado di esprimermi. Sta di fatto che quei politici dell’anteguerra e del primo dopoguerra, per non parlare dei loro predecessori ottocenteschi, passati alla storia come esempi di serietà e onorabilità, avevano goduto il privilegio di operare in un ambito a parte. Come dire che erano al riparo dalle interferenze di un elettorato sempre più esigente e impertinente qual è l’attuale.
Insomma, le virtù del riserbo, del rigore, della dedizione totale a un lavoro-missione rimangono sempre ammirevoli: questione di stile, appunto. In pratica, però, non servono più. Ne occorrono altri. Si pensi all’importanza della comunicazione, ineludibile dovere del politico, in questa stagione all’insegna della pandemia. Trovare le parole e i modi giusti per rendere digeribili lockdown, vaccinazioni al rallentatore, frontiere bloccate: il compito supera, evidentemente, le capacità dei politici, non solo i nostri. Persino Draghi stenta a superare la prova. Con ciò rappresenta pur sempre il meglio in quanto a stile. L’alternativa, più diffusa, è il politico che rincorre la popolarità, a costo del ridicolo e della volgarità.