Più sicuri grazie al sospetto

/ 02.05.2017
di Luciana Caglio

Lo confermano, incontestabilmente, tutti gli innumerevoli sondaggi, con cui, sul piano mondiale, si tasta il polso alle aspirazioni popolari: al primo posto, figura sempre e proprio la sicurezza. E si manifesta attraverso una richiesta di protezione da minacce reali, nei paesi cosiddetti a rischio, o soltanto ipotetiche, nei paesi meglio attrezzati contro le calamità, naturali o politiche che siano. Come dire, prevale lo smarrimento nei confronti di un futuro che sembra sfuggire di mano, ovunque. Succede persino da noi, in una Svizzera dove il tasso di disoccupazione oscilla fra il 3 e il 4 per cento, ma viene percepita, come si usa dire, in ben altro modo, alla stregua di una probabilità incombente. Da qui quel bisogno di sicurezza che, secondo le indagini d’opinione, concerne, innanzi tutto, il posto di lavoro, al riparo da cambiamenti e imprevisti. Per non parlare, poi, di altre garanzie, relative ad altri beni, oggi considerati in pericolo: la salute, il clima, la socialità, e, persino, quella sorta d’incolumità dalle insidie della criminalità, un tempo vanto delle città elvetiche.

In proposito, ricompare la stessa disparità fra dati ufficiali e reazioni popolari: statisticamente, i reati non dovrebbero preoccupare, ma, dal canto loro, i cittadini si mettono sulla difensiva. Come dimostrano nuovi e fiorenti settori commerciali. Sono all’ordine del giorno, gli impianti d’allarme, le serrature multiple, la videosorveglianza, le applicazioni sul cellulare per monitorare le abitazioni, mentre, nelle strade, le telecamere, per altro politicamente osteggiate, tengono d’occhio spostamenti insoliti. Cioè sospetti.

Eccola la parola più rivelatrice per definire il clima politico e psicologico del momento: ci si trova, insomma, nel pieno della «cultura del sospetto», tenuta a battesimo dal filosofo Paul Ricoeur, che doveva aprire un dibattito sempre più attuale, sul piano del pensiero. In particolare, fu contestato da Zygmunt Bauman, il sociologo polacco recentemente scomparso, a cui si devono dichiarazioni ormai storiche, diventate aforismi: «La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità». Anzi, «rappresenta un freno nelle relazioni interindividuali» e induce a sospettare di tutto e di tutti, persino del vicino di casa, Strangers at our door, stranieri alla nostra porta. Così s’intitolava un suo saggio, dedicato appunto «al panico migranti», di cui anche noi, svizzeri e ticinesi in particolare, siamo i testimoni, disarmati, in balia a una «paura ufficiale» e a una «paura privata».

Ora, proprio qui, si tocca un aspetto tipico del vivere elvetico. Ed è quel tradizionale riserbo, quell’abitudine di farsi i fatti propri, che incidono sui rapporti fra vicini, tutt’altro che intensi e cordiali. Anzi, come aveva denunciato, anni fa, il giornalista e scrittore Hugo Loetscher nel libro dal titolo spassoso Der Waschküchenschlüssel (La chiave della lavanderia), l’uso di questo locale di servizio era oggetto di frequenti dispute fra i coinquilini che, a volte, avevano strascichi in tribunale. Alla faccia, insomma, del buon vicinato e dell’aggregazione sociale. Tanto che, in varie città, si corse ai ripari organizzando, appunto, la festa dei vicini, che cade in maggio. Col favore di una serata primaverile e di una tavola imbandita, si cerca di creare un’amicizia che, oggi, deve fare i conti con diversità sempre più accentuate. Se, prima, si trattava di nuovi arrivati, da oltre Gottardo o dall’Italia, con cui veniva poi spontaneo scambiarsi un saluto o un augurio, adesso è lo straniero, cioè l’estraneo vero e proprio, di cui non si sa nulla: da dove viene, che lingua parla, che mestiere fa. Sembra impersonare il bersaglio su misura, destinato alle supposizioni maliziose e persino malevole, che alimentano la cultura del sospetto.

Del resto, dubitare sul conto di uno sconosciuto, che forse potrebbe giungere dal Kosovo o dalla Romania, che magari campa alle nostre spalle usufruendo dell’assistenza pubblica, potrebbe organizzare furti o peggio trame terroristiche, rappresenta persino un dovere civile. Le autorità di polizia raccomandano, giustamente, di segnalare movimenti sospetti nel nostro quartiere. Provocando, però, anche incresciosi abbagli. Ecco che l’ultimo arrivato, è di origini slave, ma parla italiano, persino un po’ di dialetto, lavora in un servizio pubblico, e ci invita a casa sua: «Da noi, usa così, fra vicini».