Pipa e papi

/ 24.12.2018
di Franco Zambelloni

Ritrovo una vecchia cartolina d’auguri natalizi, scritta da un parente alcuni decenni fa: in fronte, naturalmente, figura Babbo Natale nel classico abbigliamento tradizionale – lungo berretto rosso con fiocco bianco, fiocchi di neve che cadono dall’alto, le renne in attesa di ripartire. Ma c’è un particolare che attira la mia attenzione: Babbo Natale tiene in bocca una pipa!

Già: erano altri tempi… Stava appena tramontando l’epoca in cui fumare la pipa era non solo una pratica diffusa, ma anche un segno di distinzione virile, uno svago rilassante accanto al focolare del camino, una pausa di meditazione. Ricordo che Van Gogh, nei suoi autoritratti, si raffigurava con una pipa in bocca; Courbet e Modigliani, anche; una celebre fotografia di Einstein lo presenta mentre fuma la pipa; e così anche una foto di Stalin, e via di seguito. E ricordo che Baudelaire, in un sonetto di Les fleurs du mal intitolato appunto La Pipe, fa parlare la sua pipa e le fa dire che, nella rete azzurra delle volute di fumo, incanta il cuore e cura le pene del poeta.

Oggi è abbastanza raro incontrare qualcuno con una pipa in bocca. Forse perché è prevalso l’uso della sigaretta, indubbiamente più comoda e spiccia; forse perché, comunque, le campagne di prevenzione contro il fumo condannano il tabacco comunque lo si consumi; ma anche, indubbiamente, perché la pipa è passata di moda. La moda ha sempre guidato preferenze, valori e comportamenti, anche nel campo del vizio; oggi, a giudicare dai dati che di tanto in tanto vengono resi pubblici, direi che altre sostanze stanno avanzando nell’indice di gradimento dei consumatori: droghe più o meno leggere, più o meno legali, e anche psicofarmaci – che sono pur sempre droghe. Quando pensiamo alle droghe intendiamo di solito la cocaina, l’eroina e cose del genere; ma anche gli psicofarmaci operano sui neuroni, stimolano la produzione di serotonina e di dopamina e producono, sotto controllo medico, quello che le droghe fanno disordinatamente. Ora, non credo sia un caso che il consumo di queste sostanze psicotrope aumenti – stando ai dati statistici – proprio in occasione di ricorrenze come il Natale; e così anche i casi di depressione, le cardiopatie e i suicidi, come riferiva pochi anni fa la rivista scientifica «Mente & Cervello»: «Gli studi sulla relazione tra stress e depressione inseriscono il Natale tra gli eventi stressanti per gli stimoli emotivi legati a questa ricorrenza».

Ma perché? Non è certo colpa dell’albero inghirlandato, né della ricorrenza religiosa. Piuttosto è il fatto che il Natale è per tradizione festa degli affetti, delle riunioni familiari: quando questo manca la solitudine pesa più che nelle altre circostanze. Lo si comprende bene da una lettera che nel 1923 il poeta Rainer Maria Rilke, allora quasi cinquantenne, inviava alla madre: il senso del Natale, dice il poeta, sta nella gioia dell’attesa: «Non c’è momento in cui la gioia sia più riconoscibile e afferrabile che nella pre-gioia. E siete stati voi, tu e papà, a insegnarmela in modo incomparabile».

L’attesa, dunque: l’attesa di un momento gioioso, di una festa tra persone care. Credo che anche per un bambino siano queste le cose più belle: certo, i regali, i giocattoli desiderati e suggeriti per lettera (si usa ancora?) a Babbo Natale fanno parte della festa; ma senza l’attesa, specie in quest’era consumistica, qualche regalo in più non avrebbe molto significato. È l’affetto che conta. Non per nulla il barbuto personaggio fiabesco che porta i doni col suo carro trainato da renne si chiama «Babbo» Natale: la sua figura si identifica con quella di un padre, non tanto perché il capofamiglia è (o era) anche il finanziatore della festa, ma perché è l’affetto del genitore che impreziosisce il dono.

Mi auguro che questa tradizione conti ancora a lungo per l’immaginazione e l’affettività dei bambini, anche se la moda inevitabilmente modifica sempre qualcosa: ad esempio, credo che «babbo» sia una parola ormai desueta e che occorra spiegare al bambino che designa pur sempre il papà. Ma anche «papà» è un po’ in disuso: sempre più spesso sento bambini che si rivolgono al genitore chiamandolo «papi». Non mi stupirei se, nel giro di qualche anno, Babbo Natale diventasse «Papi Natale»; ovviamente, senza una pipa in bocca!

In ogni caso, comunque si voglia chiamare il fiabesco portatore di regali, auguro ai miei eventuali lettori che questa figura tanto cara all’immaginario infantile porti loro in dono serenità, affetti e gioia.