Piove, Governo ladro! al tempo della Covid

/ 11.01.2021
di Luciana Caglio

Ha ritrovato piena attualità un detto popolare che vanta una lunga storia. Nel linguaggio corrente italiano si fa risalire a un episodio risorgimentale: comparve in una vignetta, pubblicata nel 1861 a Torino, quando una manifestazione di protesta dei mazziniani venne annullata per via di un acquazzone. Ma le ricerche dei linguisti hanno scoperto origini ancora più lontane: ai tempi dell’antico Egitto, quando il Nilo ingrossato dalle piogge straripava, devastando le coltivazioni, se ne attribuiva la colpa ai faraoni. Tutto ciò per dire che le imprecazioni nei confronti dei governanti esprimono comportamenti e malumori di sempre. Non deve quindi sorprendere che il malaugurato 2020 abbia messo più che mai sotto tiro le nostre autorità federali, cantonali e comunali, alle prese con un guaio del tutto anomalo e ingestibile.

Per forza di cose da Berna, da Bellinzona, dai Municipi sono arrivate decisioni contraddittorie e ingarbugliate, destinate a provocare sconcerto, irritazione e non soltanto. I cittadini di un Paese modello di antica e consolidata democrazia si sono sentiti privati di diritti e libertà inalienabili. Lo Stato insomma, sopraffattore, abusa dei suoi poteri e interviene alla carlona, secondo criteri indecifrabili. Perché un tardivo lockdown per ristoranti, bar e palestre proprio a dicembre? Perché i mercatini a Lugano prima pubblicizzati e poi aboliti? Non si piomba persino nel ridicolo proponendo un pubblico di 5 persone per i concerti in una sala da mille posti al LAC? Come giustificare le edicole chiuse di domenica? E via enumerando incongruenze che, a quanto pare, ci accompagneranno anche nel nuovo anno, quello all’insegna liberatoria dei vaccini, somministrati in ritardo in una Svizzera non più esemplare.

Ora, a ben guardare, quest’ondata di critiche sollevata dalla burrasca della pandemia rappresenta, in forma più acuta, un fenomeno già diffuso negli ultimi decenni proprio nelle nostre democrazie. Lo definisce bene Hans Ulrich Gumbrecht, docente emerito all’università di Stanford, in un articolo sulla «NZZ» con il titolo: «Sempre più Stato, sempre meno fiducia». In altre parole i cittadini non si sentono più rappresentati, anzi, si sentono traditi da chi siede nei Parlamenti e nelle istituzioni. Prevale una diffidenza in grado di mobilitare le piazze, dove si manifesta per tutto e anche per niente. Sia a sostegno di grandi cause: antirazzismo, femminismo, ambientalismo, socialità. Sia, però, per il semplice piacere della protesta e un vago spirito anarchico contro i detentori del potere: le poltrone o «cadreghe», per dirla alla ticinese. E sin qui si potrebbe considerarlo il legittimo esercizio di un diritto civico, un segnale di per sé positivo, se non fosse esposto al rischio di derive banalizzanti e confusionarie. Non da ultimo ispirate al complottismo e al negazionismo, del tipo: il virus è un’invezione delle multinazionali che adesso speculano sul vaccino con la complicità del solito Governo ladro, al quale comunque si chiedono interventi protettivi a iosa. In definitiva più Stato, ma in una nuova funzione: non per incassare ma per elargire.

Si tratta di un dovere che spetta innanzitutto alle autorità, costrette però a fare i conti con le loro finanze cioè con quanto i singoli cittadini e le imprese hanno versato. Perché, toccando il punto cruciale del discorso, qui ci si scontra con un radicato malinteso: lo Stato non è un’entità astratta o peggio una casta a sé stante, come si usa dire. Lo Stato non soltanto l’abbiamo eletto con i nostri voti, e quindi è il frutto delle nostre opinioni, ma siamo ancora noi a renderlo operante, finanziando le sue attività come contribuenti. In parole povere pagando le tasse, boccone amaro da ingoiare, con la speranza che siano affidate a un’amministrazione pubblica corretta, che funzioni: assicurando innanzitutto alle casse federali le entrate necessarie per coprire le uscite. Tanto da riuscire a sopportare l’urto Covid: una valanga di sussidi per tappare i buchi provocati dai ripetuti lockdown.

Con ciò non s’intende tessere l’elogio di una virtuosa madre Elvezia. Ci si limita a registrare la capacità dei suoi politici di guidare la barca nella tempesta. Smentendo, questa volta, un vecchio proverbio.