Quando va in onda per la prima volta la serie tv Homeland, (il 2 ottobre 2011 sul canale premium cable Showtime), sono trascorsi dieci anni dagli attentati dell’11 settembre e gli Stati Uniti stanno facendo i conti con la faticosa ricostruzione di un’identità ferita e con gli ultimi nefasti esiti dell’estenuante guerra in Iraq. Gli americani (ma non soltanto loro, tutte le società occidentali) hanno imparato in quel decennio a conoscere il terrorismo di matrice islamica e a convivere con un sentimento latente di paura e precarietà.
Questa angoscia si è riversata nell’industria dell’immaginario attraverso serie televisive che hanno iniziato a indagare i lati oscuri della lotta al terrore, le contraddizioni del potere, il mutato e quanto mai incerto e instabile quadro internazionale, al punto di riuscire, in alcuni casi, persino ad anticipare e prevedere il corso reale degli eventi.
Homeland ha rappresentato per certi verso l’emblema di questo nuovo inizio, il trionfo del disincanto sull’illusione, la ricerca impaziente di nuovi eroi (spesso femminili) attraverso cui interpretare e invertire quella rotta di «fine della storia» di cui parlava Francis Fukuyama. «Nessuna serie – ha scritto Cynthia Littleton su “Variety” – ha lavorato più duramente per mostrare uno specchio della realpolitik nel mondo post-11 settembre». Come sostiene il politologo francese Dominique Moïsi nel libro La geopolitica delle serie tv. Il trionfo della paura, infatti, «Homeland è l’esempio più sintomatico e più tipico di una cultura della paura che nasce negli Stati Uniti prima della tragedia dell’11 settembre 2001, ma che si diffonde in maniera spettacolare da allora […]. Troppo passiva, troppo fiduciosa in sé stessa di fronte alla minaccia terrorista prima dell’11 settembre 2001, l’America avrà una reazione eccessiva in seguito a quei tragici eventi, senza interrogarsi seriamente sulla razionalità, se non sulla moralità di ciò che metterà in atto».
Già prima di Homeland, in effetti, la serialità americana aveva guardato al pericolo del terrorismo con il piglio tipico della tradizione action: si tratta di 24 (Fox, 2001-2014), uscita pressoché in contemporanea con gli attentati dell’11 settembre, con Kiefer Sutherland nel ruolo del protagonista Jack Bauer, agente federale dell’antiterrorismo di Los Angeles. Seguendo uno schema fisso e ripetitivo (ogni stagione è una giornata di Bauer, ogni episodio un’ora della giornata), 24 affrontava ogni volta una minaccia esterna (un attentato, una bomba nucleare, un’epidemia) che il protagonista fronteggiava in maniera diretta, con abilità ed eroismo, senza il rischio di inganni, doppiogiochismi o letture parallele. Ma il filone prevalente e più tradizionale rimane quello della lotta al terrorismo, declinato in forme diverse che vanno dallo spionaggio agli apparati deviati dell’intelligence.
In Quantico (Fox, 2015-2018), per esempio, un gruppo di reclute addestrate dall’FBI nasconde un potenziale terrorista intenzionato a progettare il più grande attentato dopo quello delle torri gemelle; The Looming Tower (Hulu, 2018), invece, risale la corrente degli eventi fino al periodo precedente l’11 settembre, focalizzandosi su come le tensioni e le rivalità tra FBI e CIA alla fine degli anni 90 abbiano lasciato campo aperto alla nascita e al consolidamento della minaccia rappresentata da Bin Laden e Al-Qaeda.
Anche la serialità britannica, in particolare quella del servizio pubblico, ha cominciato a interrogarsi sui complessi nodi della politica internazionale. Bodyguard (BBC 2018, disponibile su Netflix nel resto del mondo) vede Richard Madden nei panni di David Budd, un veterano dell’esercito reduce dall’Afghanistan, cui dopo aver sventato un attentato su un treno a Londra, viene affidato il compito di proteggere la ministra dell’interno, dalle posizioni conservatrici e interventiste. La serie intende proprio giocare sullo scarto tra gli interessi che la guerra scatena nella politica e il rifiuto di chi la guerra l’ha vissuta sulla propria pelle.
Sul tema degli immigrati di seconda generazione si sofferma, invece, Informer (BBC 2018): il giovane Raza, di origini pakistane, viene avvicinato e costretto da un agente dell’antiterrorismo a mettersi sotto copertura e informarlo di quel che accade nella propria comunità. Una serie che introduce questioni centrali nel mondo contemporaneo, come la sicurezza, il multiculturalismo, le identità multiple della società globale.L’elenco delle serie dedicate ai numerosi focolai di tensione sarebbe lungo.
Dietro le costruzioni narrative, le scelte linguistiche, le molteplici contaminazioni tra generi, le serie citate condividono una cornice comune: esse sono spesso esplicita manifestazione di quel «soft power» teorizzato da Joseph Nye, che consente a una nazione di imprimere un’immagine d’influenza e persuasione da spendere a proprio vantaggio nello scenario internazionale della globalizzazione.