Lo abbiamo visto bene anche quest’anno. Di fronte ai problemi di una civiltà sempre più in crisi ci si affretta a cercare soluzioni praticabili. La gestione di queste urgenze mostra i limiti di una razionalità dal respiro corto, che si agita per proporre soluzioni pragmatiche, spesso parziali e ancor più spesso tra loro conflittuali. Sotto lo stress di un «che fare» sempre più impellente, spesso si naviga a vista. Certo, «che fare» è la domanda, ma questa domanda dovrebbe essere il punto di arrivo di altre domande che la renderebbero meglio pensabile in un mondo in cui tutto si tiene; domande che rimangono invece in ombra, sullo sfondo.
Ad esempio: perché siamo arrivati a questa situazione di crisi ambientale ed energetica? Perché tanto disorientamento nell’affrontare l’emergenza sanitaria? E perché ancora tante ingiustizie sociali, tante offese ai diritti umani, a tradire gli ideali della modernità? Domande come queste ci portano a scavalcare il ragionare appiattito sui singoli problemi contingenti e ci invitano a interrogarci sul senso del nostro agire, ci invitano a chiederci in che direzione vogliamo andare per abitare meglio il mondo.
Le conoscenze offerte nell’immenso mercato delle informazioni, nella loro polifonia disorientante, si rincorrono in tempo reale e parlano immediatamente al bisogno di un agire concreto. Per comprendere davvero abbiamo bisogno di scavalcare l’immediatezza dei dati raccontati in tempo reale; abbiamo bisogno di un’espansione del pensiero, di un’apertura della ragione al di là del mantra pragmatico che imprigiona l’esercizio della razionalità. È necessario andare oltre, e questo significa riconoscere e accogliere anche il valore cognitivo del sentire che è stato espunto e rimosso, come ben sappiamo, proprio da una ragione sempre più tecnologica.
Eppure, quando ci interroghiamo sul senso della realtà, dalle parole stesse emerge come proprio la capacità di sentire stia al cuore del bisogno di comprendere. Questo sentire ha a che fare con un’altra postura nel nostro modo di incontrare la realtà. Ha a che fare con uno sguardo altro nei confronti di ciò che si offre a noi, accogliente verso ciò che si rivela spontaneamente, al di fuori delle gabbie in cui lo rendiamo oggetto della nostra conoscenza razionale. Una realtà fatta di cose, non di oggetti da tenere a distanza. Perché le cose ci toccano e possono trasformarci, come ci ricorda uno dei messaggi più luminosi del filosofo Bruno Latour: una verità che purtroppo spesso trascuriamo.
Guardare le cose che si rivelano a noi nel loro darsi spontaneo significa aprirsi a uno sguardo poetico sulla vita, un’occasione per esprimere in modo più fecondo la nostra umanità.
Da poco abbiamo detto addio a Christian Bobin, scrittore poeticamente ispirato: «La poesia – diceva – entra nel mondo come in una casa amica, rivela le cose, le porta a rivelarsi, non le forza». Ci tiene lontani dal desiderio di possesso, di uso e di dominio del mondo. Lo sguardo poetico è contemplazione che provoca commozione verso ciò che riusciamo a vedere senza renderlo subito oggetto delle nostre spiegazioni razionali. «Il mondo è pieno di visioni che attendono degli occhi. Le presenze ci sono ma ciò che manca sono i nostri occhi».
Credo davvero che questa possibilità di abitare poeticamente il mondo sia una grande risorsa in grado di alimentare la conoscenza con una luce diversa, di renderla più autentica. Una porta di accesso a una più profonda comprensione di noi stessi e della realtà cui apparteniamo: un’esperienza in grado di trasformarci.
Anche la filosofa spagnola Maria Zambrano parlava di sapienza dell’anima, di una forma di conoscenza più autentica, antecedente al sapere razionale. Anche per lei, il sentimento poetico è quell’infinita disponibilità al mondo che offre al pensiero la capacità di sentire un’intimità originaria con le cose; un’intimità che riempie il logos di grazia e verità. Insomma, il bisogno di dare un senso al nostro agire ci invita ad avvicinarci alla realtà anche con uno sguardo poetico. Uno sguardo in cui dare voce al non saputo, al non detto, e a ciò che forse non sarà mai del tutto dicibile.
Uno sguardo che è accoglienza, attenzione alla bellezza, a volte fin troppo nascosta, tradita e maltrattata, ma che sempre ci chiama a riconoscerla e ad abitarla, prendendo un po’ le distanze dal bisogno di assoggettarla e di dominarla. Lasciarsi interpellare dalla bellezza è un progetto etico. Ce lo ricorda la saggezza antica: in greco, bellezza e chiamata hanno la stessa radice etimologica, mentre nei valori della polis il bello è sempre intrecciato al bene.