Per un Natale che medita la rivincita

/ 18.12.2017
di Ovidio Biffi

Quest’anno a Londra il Natale è contrassegnato da un’importante mostra intitolata «Living with Gods», cioè «Vivendo con gli dei», in corso al British Museum. Non avendo visitato l’esposizione, mi limito a becchettare le recensioni dei principali media londinesi. In particolare quella di Janan Ganesh sul «Financial Times» e una lunga intervista del «Church Times», splendido settimanale online della chiesa anglicana. La prima menzione la merita il critico Alastair Sooke del «Telegraph» per il suo incipit: «Quand’è l’ultima volta che avete pianto a una mostra? Io posso dirvelo subito: è capitato dopo aver visto gli oltre 160 oggetti di “Vivendo con gli dei” al British Museum». A dire il vero io non cercavo spunti per riempirmi di commozione e lacrime, ma piuttosto un «trait d’union» con il Natale cristiano ormai incombente.

L’idea mi era nata leggendo una recensione sul «Financial Times», in cui Janan Ganesh definiva la mostra londinese «l’ultimo tentativo di mostrare a una società secolarizzata la profondità e la ricchezza di tutto quello di cui si sta sbarazzando». Un’accusa tanto chiara quanto pesante, rivolta a un Occidente frastornato dalle zavorre dell’individualismo e dei populismi, ma indirizzata soprattutto a un’Europa che rinnega le sue radici cristiane e a una Francia ormai soffocata da leggi e decreti dettati dal bieco giacobinismo del presidente Hollande per ghettizzare le chiese cristiane.

Variando le fonti ho poi scoperto che «Living with Gods» non ha finalità indirizzate alla geopolitica. Anzi: l’esposizione è fin troppo asettica sotto questo profilo, al punto da aver rimosso, in ossequio all’ormai imperante «politicamente corretto», alcuni oggetti di una religione (lo scintoismo) perché recavano l’originaria svastica usata secoli dopo dal nazismo. Mi sono chiesto: vuoi vedere che è colpa di questo orientamento (via anche il presepe, come la svastica) se non ci sono riferimenti al Natale cristiano? Alla fine una traccia, anche se indiretta, l’ho trovata. Me l’ha fornita il curatore dell’esposizione Neil MacGregor, tra le massime autorità culturali europee, che sul «Financial Times» con un perentorio «Siamo i primi della storia senza religione» aveva rafforzato le critiche lanciate da Ganesh all’Europa.

Il giorno dopo sulla rivista online «Church Times» sollecitato dall’intervistatore a chiarire come sia possibile superare le difficoltà che ancora esistono nella separazione fra Stato e Chiesa dapprima ha ricordato che le società che avevano tentato di abolire la religione, come la Francia del 1793 o come l’Unione Sovietica il secolo scorso, hanno finito per vederla rimpiazzata con una religione di Stato. Successivamente egli ha citato il Natale indicandolo come «un momento in cui tutti hanno apertura e sensibilità verso i poveri, i deboli, i diseredati», precisando anche che secondo lui il Natale è articolato in varie celebrazioni (dall’Avvento all’Epifania) proprio «perché ormai è l’unico momento in cui, come nazione, tutta la popolazione è portata a pensare a tutte le componenti della società e ad attenersi agli impegni collegati». Le parole di MacGregor, accolte dai media con grande risalto, sono state recepite come ulteriore segno della rivincita che la festa cristiana per eccellenza sta prendendosi sui suoi detrattori, tanto che altri commentatori si sono allineati, spingendosi a parlare di una «Christmas Revolution» capace di ridare forza al vero Natale.

Passano gli anni e, nonostante gli annunci di una sua inevitabile sparizione, appena sull’ultima pagina del calendario vediamo scritto «Natale» alla fine scopriamo che esiste ancora, che si rinnova. Far capire – non ai fedeli di altre religioni, ma soprattutto a noi occidentali aridi e individualisti – che fratellanza, pace e serenità possono nascere solo nel nostro personalissimo e intimo presepe, nei nostri cuori rimane però un’impresa assai complessa. Però non impossibile, se si pone mente alla «mini rivoluzione natalizia» che molti di noi già avvertono. L’ha descritta anni fa Annalena Benini su «Il Foglio», ricordando l’odio preventivo che sentiamo affiorare e lasciamo prevalere non appena vediamo annunciati con largo anticipo segnali inequivocabili del Natale, e convinti ci diciamo: «Quest’anno niente regali, ma non solo niente regali, neanche una lucina, un panettone, neanche Buon Natale. Anzi, a tutti vaffa... e ci si rivede a gennaio». Poi però, dopo un primo momento di smarrimento, ricominciamo con entusiasmo a organizzare il Natale, contagiati da quella che lei ha definito «sindrome di Stoccolma», cioè «la frenesia che ci fa cantare, già da metà dicembre, “Jingle Bells” per strada, e correre a mettere i regali sotto l’albero». Una «mini rivoluzione» contro chi dice di volerlo togliere dal calendario, mentre in realtà lo vuole estirpare dai nostri cuori. Come quelli che hanno scelto la copertina natalizia di «der Spiegel».