Per il compleanno non voglio niente

/ 03.09.2018
di Bruno Gambarotta

Non riesco a ricordare quando tutto ha avuto inizio. Intendo una data precisa, giorno, mese, anno. Non l’ho trovata sulle mie agende dove ho l’abitudine di annotare, anno per anno, tutto quello che mi riguarda. La cosa deve essersi verificata con una lentezza tale da non farci caso all’inizio finché non è stato troppo tardi per porvi rimedio. Come avrete compreso, sto parlando dell’inversione dei ruoli in famiglia, per cui i figli si mettono a fare i padri e i padri diventano figli. Potrei forse ancorare la data a un mio compleanno, quando mi stavo avvicinando alla soglia degli ottanta anni. Con un congruo anticipo avevo ribadito l’avviso: non voglio regali, non saprei cosa farmene, ho tutto quel che mi serve. Nel mio studio sono ancora esposti i doni che i figli mi porgevano quando erano bambini, fabbricati con le loro mani: disegni, pupazzi, statuette di argilla. Ma ora che la loro età viaggia attorno ai cinquanta anni, non mi sembra il caso.

Per qualche anniversario l’editto è stato rispettato, per essere infranto con una subdola manovra, concertata alle mie spalle con la complicità della loro madre. E tutto, naturalmente, «per il mio bene, per conservarmi in salute». Al loro arrivo per la cena di compleanno con i rispettivi coniugi, mia figlia mi ha attirato in cucina con una scusa mentre figlio e genero si introducevano nel mio studio per applicare allo schienale della sedia una copertura che nasconde un congegno elettrico. Si tratta di barre metalliche che vanno su e giù, dal coccige al collo, massaggiando la schiena. Mentirei se negassi il piacere provato ma non è vero che, come sostiene mio figlio, questo congegno non mi faccia perdere tempo. Provateci voi a concentrarvi per leggere e prendere appunti mentre un robot, con un fastidioso ronzio, vi spiana la schiena. Appena mio figlio esce di casa lo spengo e lo riaccendo sentendo girare la chiave nella toppa.

La figlia maggiore a sua volta ha sferrato l’attacco sul versante del cibo, prevenendo le mie proteste: «Hai detto che non vuoi regali perché non sapresti dove metterli, che questa casa è piena di roba. Ma questa sparisce una volta che l’hai mangiata». E chi ha detto che ho voglia di mangiarla? Era un cestino di prodotti acquistati in quelle gioiellerie mascherate da negozi bio. Barattoli con etichette sulle quali ricorre più volte la preposizione «Senza». Senza zucchero, senza sale, senza grassi, senza lattosio, senza olio di palma, senza ogm. Ogni «senza» fa salire il prezzo. Mia figlia sa che detesto lo spreco e faccio di tutto per contrastarlo in ogni circostanza, perciò contava sul fatto che quella roba insipida avrei finito per mangiarla. Non ho detto «gustarla». Per fortuna in un nascondiglio conservo una discreta riserva di salse piccanti da aggiungere a quelle pappette.

Da questo punto di vista sono un degno erede del mio nonno paterno. Si chiamava Francesco ed è morto nel 1939. Avevo solo due anni e ho imparato a conoscerlo attraverso i racconti di mio padre. Preparava la senape con le sue mani, quelle in commercio non erano abbastanza forti per il suo palato. Dopo la prima crisi cardiaca i medici gli avevano vietato i cibi piccanti. Bloccato in casa, fingeva di ubbidire ma quando è morto gli hanno trovato sul davanzale della finestra accanto al letto, nascosta da una tenda, la sua senape e una latta piena a metà di pesciolini fritti e messi in carpione, con salvia, cipolle, vino e aceto: una squisitezza. Per nascondere il mio tesoretto non ho davanzali ma gli scaffali della libreria. Me l’ha insegnato la grande distribuzione, quando sono andato in un affollato pomeriggio di sabato a promuovere un mio libro. Gli addetti al reparto, quando rifacevano l’allestimento trovavano sugli scaffali, nascosti dietro i volumi, i contenitori vuoti di succhi di frutta che le mamme premurose avevano fatto bere ai loro bambini prima di passare dalla cassa. Quello dei libri era l’unico reparto tranquillo, non transitava quasi nessuno. I miei tesori non li tengo nello scaffale dei libri gialli, ma dietro le opere di Benedetto Croce, al sicuro.

Dopo quel compleanno si sono rotte le dighe. Elenco incompleto dei regali: prenotazioni per visite di controllo e per l’analisi del sangue, un blocchetto per dieci sedute dal fisiatra, una bilancia pesa persone che certifica la quantità di grassi, di liquidi e di muscoli (mai usata, se qualcuno la volesse gli farei un buon prezzo), un casco mostruoso da indossare per muoversi in bicicletta (quando vado a teatro e all’auditorium dove lo metto?), sempre per la bici un assetto di luci tali da farmi scambiare per un albero di Natale in movimento. Sono sicuro che i miei figli agiscono così perché mi vogliono bene. Però è anche vero che quando passano a trovarmi per controllare se seguo le loro prescrizioni, dall’incrocio con i tanti vecchi acciaccati che abitano nel mio quartiere, ricevono uno stimolo in più a perseverare per allontanare lo spettro di un padre in quello stato da accudire.