Peppo, Maestro di stile e di misura

/ 10.07.2023
di Aldo Grasso


«Le ore destinate alla lettura sono sempre troppo poche per questa voracità smisurata che io ho per la lettura. Durante il giorno leggo molto, sempre meno di quello che vorrei. Ho un rimpianto per tutti i libri che non ho letto e non potrò leggere, faccio delle incursioni dentro i libri per avere come la percezione di un paesaggio». Sono trascorsi venti anni dalla morte di Giuseppe Pontiggia, (Como, 25 settembre 1934-Milano, 27 giugno 2003) e il valore della sua opera letteraria, del suo esempio di scrittore, si stagliano con ancora maggiore forza davanti ai nostri occhi. Ora riposa a Erba, nel cimitero di Arcellasco, la sua tomba è stata progettata dal cugino Ezio Frigerio, con una riproduzione di un antico mosaico romano. La sua biblioteca di 34.000 volumi è stata affidata prima a una fondazione in Svizzera e poi trasferita a Milano.

Come ha scritto Daniela Marcheschi, la preziosa curatrice dell sue opere, Pontiggia è uno degli autori più originali del secondo Novecento italiano: «Maestro di stile e di misura, cultore di letterature classiche, appassionato bibliofilo, il Meridiano, uscito a un anno di distanza dalla sua prematura scomparsa, presenta tutti i suoi libri in ordine cronologico e senza distinguere tra narrativa e saggistica, che nelle sue opere sono continuamente intrecciate, e permette di cogliere il suo personalissimo progetto a tutto campo sulla letteratura, la ricchezza e la varietà di generi letterari e di toni della sua opera, la raffinatezza essenziale del suo stile, l’intelligenza (talmente ironica e acuta da diventare tagliente) delle sue osservazioni sulla realtà, le persone, gli avvenimenti, il suo concetto di estetica che mai prescinde da un vigile e severo sentimento etico».

Quanto ad anniversari, questo è un anno sovraffollato, tra il centenario della nascita di Calvino, il centocinquantesimo dalla morte di Manzoni e il cinquantesimo da quella di Gadda, per lasciare spazio adeguato a uno scrittore che avrebbe meritato più attenzione e più lettori, collocato com’è in quella linea mediana, lontana tanto dallo sperimentalismo quanto dall’ossessione lessicale, spesso rimpianta come poco praticata dalla nostra letteratura. Eppure, mi pare di sentire ancora la voce di Pontiggia.

«Buonasera. Sono Giuseppe Pontiggia e mi accingo a iniziare con voi un’avventura che durerà cinque settimane; il tema delle nostre conversazioni sarà lo scrivere, i problemi dello scrivere, le modalità e i percorsi dello scrivere. Normalmente un autore viene presentato – a meno che non sia un esordiente – con una frase abbastanza tipica, ossia che non ha bisogno di presentazioni; in realtà ne avrebbe molto bisogno, ma anche questo è uno dei modi in cui si risolve il problema del lavoro, cioè sottraendosi al compito. Nel mio caso io devo invece autopresentarmi».

A rileggere questo incipit mi è venuto un brivido lungo la schiena. Nel ricordo del Peppo, come lo chiamavano in famiglia, ma anche nel ricordo di un’avventura professionale del tutto speciale. A quel tempo dirigevo Radio Rai. L’esperienza, all’epoca della «Rai dei professori», è durata poco più di sei mesi, a partire dal novembre 1993. Di due programmi sono orgogliosamente fiero. Su Radiotre, la lettura integrale della Bibbia, affidata alla cura preziosa di Gianfranco Ravasi (ora cardinale e Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura), e, su Radiodue, Dentro la sera, una serie di colloqui quasi notturni assegnati a firme prestigiose. La più prestigiosa di tutte era quella di Pontiggia.

«Buonasera. Sono Giuseppe Pontiggia…». Mi pare di risentire la sua voce: calda, pastosa, fieramente lombarda. Ricordo l’andamento cadenzato, le improvvise accensioni, le pause. Sì, le pause, le coraggiose e radiofoniche pause del Peppo. In radio, di solito la pausa è vissuta con spavento, come una sorta di mancamento; quelle di Pontiggia erano speciali, un respiro profondo fra un suggerimento sullo scrivere e una riflessione sulla letteratura. Sembrava che avesse sempre lavorato in radio (anche se era la sua prima esperienza), tanto riusciva a imprimere ai colloqui una cifra inconfondibile, un tono così personale da essere subito un punto di riferimento per gli ascoltatori.

Pontiggia era un ossimoro vivente. Nella conversazione numero 20 scrive: «L’ossimoro si può definire un po’ scherzosamente come la “coabitazione coatta” di due contrari: “mite perfidia”, “corrotta innocenza”. Due separati in casa, una coppia che non dovrebbe trovare un punto di conciliazione, ma che – grazie all’inventiva di chi la intuisce, la propone – trova un suo misterioso ma anche solido accordo». A ripensare a quelle lezioni di Pontiggia, viene fuori tutta la sua complessa natura ossimorica. Aveva un sorriso bonario, disarmante, capace però di celare un giudizio tagliente e definitivo. Come tutti quelli che non fanno sconti a sé stessi, usava l’ironia per incunearsi fra i resti di inscalfibili certezze, corrodendole dall'interno.


Biografia

Giuseppe Pontiggia nasce a Como il 25 settembre 1934. A diciassette anni, ultimato il Liceo classico, inizia a lavorare in banca. Prende parte fin dalla fondazione (1956) alla redazione del «Verri», rivista d'avanguardia diretta da Luciano Anceschi, che pubblica nel 1959, nei suoi «Quaderni», La morte in banca insieme con cinque racconti. Nello stesso anno si laurea all'Università Cattolica di Milano con una tesi sulla tecnica narrativa di Italo Svevo. Lasciata la banca nel 1961, si dedica all'insegnamento serale: l'ampio tempo libero gli consente di approfondire letture, interessi ed esperienze in molteplici direzioni.

A metà degli anni Sessanta inizia la collaborazione con Adelphi - con cui pubblica nel 1968 L'arte della fuga, e in seguito con Mondadori - per cui cura, sin dal primo numero nel 1961, l'Almanacco dello Specchio. Svolge attività saggistica e critica, occupandosi di autori classici e di moderni e contemporanei e negli anni Novanta dà vita a una scuola di scrittura creativa.

Giuseppe Pontiggia muore a Milano il 27 giugno 2003. Nel 1978 pubblica il suo terzo romanzo Il giocatore invisibile cui seguono: Il raggio d’ombra (1983); La grande sera (1989); Vite di uomini non illustri (1994); Nati due volte (2000); Prima persona (2002); Il residence delle ombre cinesi (2003 - postumo). Tra le raccolte di saggi vanno ricordati: Il giardino delle Esperidi (1984); Le sabbie immobili (1991); L’isola volante (1996); I contemporanei del futuro. Viaggio nei classici (1998).

Muore a Milano il 27 giugno 2003.