Non ancora quarantenne e già in pensione, per propria scelta: è una condizione che giustamente sconcerta e può far pensare a un abuso. Invece è legittima e fattibile. Niente da spartire con una scappatoia per fannulloni o furbastri profittatori dell’assistenza sociale. E se, per ora, quest’insolita decisione concerne una minoranza esigua di giovani adulti, sembra però far tendenza fra i millennials, anche in Svizzera. Si tratta di pensionati, del tutto particolari, che non aspirano a un’anticipata quiescenza, da dedicare allo svago e al riposo. Al contrario, vogliono rimettersi in gioco affrontando le incognite e le fatiche di un’attività alternativa, rispetto alla precedente: da impiegato a indipendente, da subalterno a protagonista. Ecco, finalmente, lo spazio agognato in cui dimostrare capacità, fiuto, inventiva. E anche senno.
Perché non si sta parlando di un’avventura campata in aria, bensì della proposta di un movimento ad hoc. Si chiama FIRE, acronimo di Financial Independence Retire Early. Nato nel 1992, in USA sull’onda dei bestseller Your Money and Your Life e Early Retirement Extreme, raggiunse un’allargata notorietà, nel 2011, attraverso il blog Mister Money Mustache. Da questa tribuna mediatica, il baffuto canadese Pete Adeney diffondeva le regole di un modello comportamentale ispirato alla frugalità: in realtà non virtuosa, anzi dagli effetti preoccupanti.
In pratica, per mettersi in proprio, i giovani pensionati si vedono costretti a forme di risparmio «aggressivo». Rivelatrice, in proposito, la recente testimonianza, rilasciata a un quotidiano zurighese da un informatico 34enne, sposato e due figli, che ha scelto di prepensionarsi a 40, per diventare imprenditore autonomo. Un obiettivo che comporterà l’investimento di circa un paio di milioni. Finora, questa famiglia è riuscita risparmiare quasi 400’000 franchi imponendosi, ovviamente, un tenore di vita spartano. Da «frugalisti», per usare il neologismo che spetta a una categoria, esposta a ironie e critiche. Secondo gli esperti di finanza, il progetto FIRE non tiene conto di possibili imprevisti, nell’ambito dell’economia in generale e neppure del fattore longevità: in altre parole, i prepensionati, nel corso dei decenni, finiscono per produrre un onere insopportabile sul piano assicurativo.
Al di là degli aspetti strettamente finanziari, il pensionamento anticipato fa emergere un mutato rapporto con il lavoro: che sta perdendo la centralità, quella sorta persino di sacralità, che gli spettavano in epoche, lontane non tanto nel tempo quanto nel costume. Quando, insomma, erano scarse, o riservate a pochi, le alternative: viaggi, spettacoli, sport. E quindi il lavoro, per così dire, teneva compagnia, creava legami, amicizie, rivalità, dava un senso alle giornate. E, tanto più, nella nostra Svizzera, dove sgobbare apparteneva alle virtù nazionali. Il verbo al passato è d’obbligo: oggi le statistiche ci dicono che il 58% della popolazione attiva, cioè 6 persone su 10, smette prima dell’età ufficiale, e soltanto il 32% arriva ai 64/65. In media, si lascia l’ufficio, la fabbrica, il negozio, l’aula un anno e mezzo prima del termine. Ed è, del resto, una tendenza che si accentua e trova il consenso popolare. Sui social, il prepensionamento è considerato un diritto. Giustificato da problemi di salute: prevale l’opinione che il lavoro mette sotto pressione, provoca «sfinimento» e vere proprie malattie specifiche.
Va segnalata, tuttavia, una risicata minoranza di lavoratori che osano rimanere attivi, oltre i termini ufficiali. Sfuggono alle statistiche, cercano di mimetizzarsi, consapevoli di passare per abusivi, che occupano uno spazio destinato, giustamente, ai giovani. Come si spiega, allora, questa tenace fedeltà a una forma di lavoro, socialmente malvista? Forza dell’abitudine, passione per il mestiere, piacere per la fatica che giustifica il riposo, ambizione perfezionista?
Continuo a domandarmelo. Forse aveva ragione Luigi Barzini, con la storica battuta: «Fare il giornalista? Sempre meglio che lavorare». Il guaio è che molti ci credono.