Pensare con le mani

/ 30.03.2020
di Orazio Martinetti

La necessità, oggi nelle vesti di emergenza, aguzza l’ingegno. Il virus ha risvegliato in ciascuno di noi abilità, inclinazioni, doti ch’erano rimaste in sonno. Dai ripostigli e dalle cantine è uscito ogni tipo di attrezzo, vanghe cesoie rastrelli zappe; chi ha la fortuna di possedere un giardino o un orto ha riscoperto i benefici, anche terapeutici, della terra e le soddisfazioni dell’autoproduzione di ortaggi. Nelle case trasformate in rifugio mani prima abituate a stare in ufficio staccano tende, lavano vetri, tirano a lucido il parquet, compulsano ricettari. La pandemia ha rilanciato la domesticità, riportando lo sguardo sulle incombenze sempre differite per mancanza di tempo.

Gli anziani – la fascia sociale oggi più vulnerabile – ricordano la campagna passata alla storia come «piano Wahlen», detta anche «battaglia dei campi». Fu promossa, nel 1939-40 dall’allora capo dell’Ufficio federale di guerra per l’alimentazione, l’ingegnere agronomo Friedrich Traugott Wahlen (poi diventato Consigliere federale anche sull’onda dei meriti acquisiti). L’idea di Wahlen era tanto semplice quanto onerosa. Alle spalle c’era l’esperienza della Grande Guerra del 14-18, con le gravi ristrettezze derivate dalla progressiva chiusura dei canali delle importazioni. Occorreva quindi provvedere affinché quel collo di bottiglia negli approvvigionamenti non si ripetesse, o comunque assumesse proporzioni meno preoccupanti. Fu così elaborato un programma che aveva come obiettivo strategico una semi-autarchia alimentare della Confederazione: ogni appezzamento, ogni aiuola, ogni parco doveva esser messo a coltura: patate, rape, barbabietole, zucche, cetrioli, carote eccetera. Le zolle scavate e rivoltate fornivano un doppio contributo: all’auto-sufficienza e allo spirito di resistenza, all’interno di una concezione della difesa nazionale che vedeva protagonisti, da un lato, gli agricoltori, e dall’altro, lungo la linea di frontiera, i cittadini in grigioverde. A tale «riarmo morale» dava una mano notevole l’ideologia rurale che aveva accompagnato la formazione dello Stato federale fin dall’Ottocento, ovvero l’idea che nell’animo di ogni svizzero albergasse una vocazione contadina.

Il piano Wahlen permise di raddoppiare le superfici coltivate, elevando il grado di auto-approvvigionamento dal 52% al 59%. Non fu tuttavia possibile raggiungere gli obiettivi auspicati, ossia avvicinarsi ad una copertura capillare dei bisogni interni, di alimentari e di combustibili. Neppure l’introduzione dell’obbligo lavorativo per tutti gli svizzeri, maschi e femmine, dai 16 ai 65 anni e i ferventi appelli alla gioventù del generale Guisan riuscirono a colmare i vuoti generati dal calo dell’import.

Nel secondo dopoguerra, l’economia e la società si sono via via allontanati dall’orizzonte rurale per imboccare la strada del terziario, la galassia dei servizi che ha reso gran parte degli attivi in questo settore un folto plotone di colletti bianchi, circondato da tecnologie pervasive e onnipresenti, e non soltanto negli uffici. Questo ha comportato un cambiamento radicale, una «mutazione antropologica» che ha fatto sparire non soltanto coltivi e alpeggi, falci e forche, ma anche conoscenze e manualità: quella «vita solida» che Arthur Lochmann, filosofo e carpentiere francese, descrive magistralmente nel volume La lezione del legno, appena tradotto in italiano dalla casa editrice Ponte alle Grazie: «ho imparato a pensare materialmente servendomi delle mie mani e accettando il verdetto delle cose. Ho imparato a pensare i miei gesti, ad anticipare le sequenze di lavoro, a considerare i progetti nella loro globalità sapendo che i problemi si rivelano nei dettagli, a fare e a non avere paura di sperimentare, a non puntare sul talento che brilla per un istante, ma su una certa forma di sforzo che si radica nel corpo». Lochmann non manca di citare Richard Sennett, autore di uno splendido saggio sull’«uomo artigiano», un inno alla perizia, all’opera eseguita a regola d’arte, risultato di sapienza e intelligenza.

Il corredo tecnologico che fino a ieri ha colonizzato la nostra vita oggi ci soccorre, togliendoci dal confino in cui la pandemia ci ha gettato. Ma il domicilio coatto può servirci a rivedere il nostro rapporto con l’altro e con l’ambiente, a riscoprire capacità che il digitale ci aveva gentilmente sottratto, proiettandoci in una sorta di paradiso artificiale, dentro un’infinita rete incorporea ove tutto appariva facile e immediato. A portata di mano. Poco importa se questa mano aveva ormai perso ogni relazione con il mondo reale, con la materialità delle risorse naturali, dalla terra al legno.