Lo scorso 1° d’agosto, mentre in piazza la banda intonava l’inno nazionale, osservavo le bocche di alcuni presenti canticchiare sottovoce «Quando bionda aurora…». La gran parte dei presenti radunati nella piazza era composta da adulti e anziani; pochi i giovani, e uno solo aveva l’aria di cantare sull’onda della melodia. E ho pensato a fatti di cronaca: giocatori della squadra nazionale che non cantavano l’inno patrio durante i recenti campionati mondiali di calcio; interrogazioni parlamentari che periodicamente richiedono l’insegnamento del salmo nelle scuole ticinesi.
In questi casi sono spesso le ideologie a determinare il giudizio; io voglio solo considerare l’evidenza di tradizioni che illanguidiscono o scompaiono. Gli stessi termini «Patria» e «Nazione» sono sempre più lontani dal loro significato originario: patria indica, etimologicamente, la «terra dei padri»; nazione, il popolo in cui si è nati. Se consultiamo le statistiche demografiche, appare evidente che i due termini sono sempre meno conformi alla realtà oggettiva. Quattro anni fa l’Ufficio cantonale di statistica pubblicava uno studio dal titolo Stranieri, migrazione e integrazione in Ticino: vi si legge che i nati in Svizzera da almeno un genitore, nato lui pure in Svizzera, nel Ticino non raggiungono neppure il 50% della popolazione residente. È pur vero che il nostro cantone costituisce un caso particolare: a livello nazionale, gli autoctoni corrispondono al 61,6%, anche se il tasso migratorio è elevato pure a Ginevra, Basilea città, Vaud e Zurigo.
Beninteso: il fenomeno migratorio non può costituire un motivo per giustificare campagne sciovinistiche o razzistiche. La patria e il suo significato vanno difesi e salvaguardati, ma la difesa sta nel rimanere fedeli ai valori fondanti e alla tradizione che i padri hanno consegnato. In altre parole: il senso patriottico si fonda sulla consapevolezza dell’appartenenza a una comunità, della quale si condividono lingua, cultura, princìpi civili e morali. Diceva Seneca duemila anni fa: «Nemo patriam quia magna est amat, sed quia sua» – «Nessuno ama la patria perché è grande, ma perché è sua».
È pur vero che, nel mondo globalizzato, mantenere questo senso di appartenenza e di identità risulta sempre più difficile: non solo per il flusso migratorio costante, ma per l’invadenza dei media senza confini, per le evasioni nei mondi virtuali, per l’infiltrazione dell’inglese nelle lingue locali. In questi giorni, entrando in un grande magazzino di una catena svizzera, mi dicevo perplesso: «Strano… Qui vendono solo sale…». Dappertutto, infatti, grandi cartelli con la scritta «Sale!». Vedendo poi questi cartelli appesi sopra capi d’abbigliamento mi sono reso conto di dover tradurre.
Non si può arrestare il cambiamento, ma si può collegare il vecchio con il nuovo: conservare la tradizione, sia pure integrandola dentro la nuova visione di un mondo profondamente cambiato. Probabilmente ha ragione Habermas quando sostiene che il concetto di stato-nazione come unità etnico-culturale è ormai superato e che ci avviamo verso forme postnazionali di socializzazione; resta tuttavia il fatto che il bisogno di appartenenza è pur sempre forte in quell’«animale sociale» che è l’uomo e che la solitudine diventa oggi un motivo d’afflizione sempre più diffuso.
Era l’anno 1769 quando Voltaire, scrivendo la voce Patria nel suo Dizionario filosofico, annotava: «Una patria è un insieme di tante famiglie. Più questa patria si ingrandisce, meno la si ama, perché l’amore suddiviso s’affievolisce. È impossibile amare teneramente una famiglia troppo numerosa che si conosce appena». Appunto per questo, oggi che la «famiglia» si fa sovraffollata, la conoscenza è indispensabile: è necessario consegnare le tradizioni alla memoria di chiunque nasca o arrivi, perché è la memoria che regge l’identità. Ci sono analogie tra un individuo e una nazione: una persona cambia e si trasforma nel corso dell’esistenza e a quarant’anni non è certo più la stessa che era a dieci; però i suoi ricordi creano una continuità in questo processo di trasformazione, ed è questo che la rende in grado di dire «Io». Ma una persona che perda la memoria in seguito a un evento traumatico perde anche la sua storia e la sua identità: qualcosa di analogo accade a una nazione, se consegna il suo passato all’oblìo. È dunque necessario tramandare la cultura ereditata – compresi l’inno patrio, la bandiera e ogni altro simbolo identitario – se si vuole la sopravvivenza della nazione.