Che i partiti politici siano in apnea non è una novità. Per guidarli occorre un cospicuo corredo di doti: energia fisica e mentale, tempo, capacità di mediazione, resistenza; bisogna saper incassare i colpi bassi, deglutire le delusioni, assorbire i tradimenti. È un lavoro improbo, che riserva più oneri che onori. Inoltre i candidati che meglio potrebbero assumere questa funzione sono spesso persone già oberate di mille impegni, soprattutto sul fronte dell’attività professionale. Forse una volta bastava il sacro fuoco della passione, l’attaccamento alla bandiera in ossequio allo spirito di milizia. Oggi no, il dilettantismo non è più sufficiente per sbrogliare matasse sempre più intricate.
Come venirne a capo? Alcune formazioni (Verdi, socialisti) hanno deciso di optare per una presidenza collegiale, possibilmente composta di uomini e donne in egual misura. Altri invece preferiscono proseguire sui binari tradizionali, ovvero la leadership unica. Entrambi i modelli presentano vantaggi e svantaggi.
La co-leadership permette di alleviare il fardello distribuendo in misura equa gli incarichi. Finisce però fatalmente per rallentare le decisioni, e sappiamo quanto conta il fattore-tempo nell’era della politica accelerata. Inoltre può ingenerare incertezza e disorientamento negli iscritti, specie nei passaggi in cui emergono divergenze o dissapori all’interno del gruppo dirigente.
La direzione monocratica funziona in modo più semplice e lineare: c’è un capo unico, riconosciuto dalla maggioranza dei tesserati (almeno in teoria). A lui spetta «dare la linea» al partito e agli eletti presenti nei consessi comunali e cantonali. Tuttavia anche questa soluzione non è al riparo da rischi, il peggiore dei quali è rappresentato dal dispotismo, un uomo solo al comando che non tollera né critiche al suo operato né dissensi.
Nella storia del Canton Ticino non si è mai giunti a questi comportamenti estremi. Non sono però mancate le tentazioni autoritarie, e comunque le personalità forti e volitive hanno spesso fatto valere le loro idee con modi bruschi e senza tante cerimonie. Non per nulla Guglielmo Canevascini era soprannominato il «padreterno» e non solo per via della sua longevità politica. Ma la lista sarebbe lunghissima: nelle file dei conservatori si distinsero in questo ruolo Giuseppe Motta e Giuseppe Lepori; tra i liberali, Brenno Galli e Nello Celio. In tempi meno remoti si diceva che fosse «Il Dovere» a indicare al partito di maggioranza relativa la strada da seguire. Le direttive si potevano dedurre dagli editoriali redatti da Plinio Verda e Giuseppe Buffi. D’altronde era in questa cornice, l’organo di partito, che si facevano le ossa i futuri dirigenti, figure ibride, avvocati-giornalisti-deputati in Gran Consiglio. Erano anche personaggi «carismatici», ossia dotati di un ascendente e di un talento oratorio che i rivali non avevano. Il timone era nelle mani di pochi, i cosiddetti «tenori», i più annuivano e ubbidivano.
Ora le coordinate sono mutate. Le testate di partito, trasformate in settimanali, sopravvivono a stento e comunque hanno accantonato le ambizioni di un tempo. L’orizzonte politico oscilla tra la nostalgia dell’uomo forte e un movimentismo alimentato dalla grande Rete. La destra, per dire, preferisce affidarsi ad un leader unico, possibilmente ricco di suo. Solo sotto la guida di Blocher l’Udc è diventato il primo partito nazionale; anche la Lega dei ticinesi deve le sue fortune elettorali al patrimonio del suo fondatore, l’imprenditore Giuliano Bignasca. A sinistra prevale invece la mentalità collegiale, il processo decisionale condiviso, le liturgie partecipative. Ma anche questo metodo cela insidie, come il frazionismo e le scissioni, tare ereditarie di questa famiglia politica.
Dove, verso quali sbocchi porterà il cammino della Rete non è possibile prevedere. Gli sviluppi che vediamo scorrere sotto i nostri occhi paiono dar luogo a due tendenze opposte, l’una verticale, controllata da un’oligarchia tecnocratica, l’altra orizzontale, ancorata ai princìpi della democrazia diretta. Insomma, siamo alle solite: sembra proprio che il «partito digitale» (il nuovo) si ritrovi ad affrontare gli stessi scogli del «partito analogico» (il vecchio). Ovvero un’oggettiva carenza non di strumenti tecnologici, ma di «teste», di risorse umane; un capitale fatto di idee, impegno, dedizione disinteressata alla causa.