Parole senza libertà

/ 08.01.2018
di Paolo Di Stefano

Se qualcuno non avesse ancora ben capito lo spirito del governo di Donald Trump (voto 1), con le sue nuove direttive linguistiche appare tutto ancora più chiaro. Il presidente americano ha disposto che dai documenti del Center for Disease Control (la massima autorità sanitaria degli Stati Uniti) vengano cancellate alcune parole: «vulnerabile», «diritto», «feto», «transgender», «diversità», pensando così di eliminare dei concetti disturbanti semplicemente eliminando le parole corrispondenti. Trump ha proibito le formule «basato sulla scienza» o «scientificamente provato», ordinando di sostituirle con una catena di parole fumose e insensate: «sulla base di raccomandazioni della scienza in considerazione degli standard e dei desideri della comunità». Il restyling linguistico servirebbe a rendere più complicato il dibattito sulle questioni di bioetica e sui diritti civili.

Il linguista Raffaele Simone ha detto giustamente che con queste decisioni, Trump si è messo a sua insaputa sulle orme di Hitler e di Mussolini, i dittatori che vollero rendere funzionale la lingua al loro regime imponendo purismi e censure. Oltre all’imposizione del «Voi» al posto del «Lei» di cortesia negli uffici pubblici, le parole straniere vennero messe al bando con alcune proposte comiche come «insalata tricolore» al posto dell’insalata russa e «chiavemorsa» al posto della chiave inglese. Quel che colpisce è come strumenti di comando molto antiquati e poco raffinati come le censure riescano a convivere, in una sola testa (giallo-arancione), con l’uso più aggiornato dei social network, dove ognuno ha libertà di parola e dove appunto le parole in libertà dei governanti sono diventate abitudine discutibilissima (2+).

Per esempio. Matteo Renzi si trova in vacanza con moglie e figli in un albergo sull’Alpe di Siusi, Alto Adige, e appena sveglio invia su Twitter la fotografia di una pista completamente innevata con il commento: «Stamattina alzati presto per andare a sciare. Ma nevica alla grande, tutti a letto di nuovo. Primo giorno dell’anno imbiancato, bellissimo. Auguri, viva il #2018». Vi ricordate la celebre rubrica del settimanale di resistenza umana «Cuore» (5½)? Si intitolava un po’ brutalmente: «E chi se ne frega». Ecco, il tweet del segretario del Pd sarebbe stato il bersaglio ideale di quella benemerita satira ormai scomparsa dai giornali. In effetti a chi può interessare che la mattina del 1. gennaio 2018 Renzi torni a letto perché le piste sono impraticabili? A nessuno. Dunque: chissenefrega... A meno di non essere terremotati costretti a passare il capodanno in una tenda gelida nonostante le vane promesse del governo. Tant’è vero che da Amatrice, uno dei paesi più colpiti dal sisma dell’agosto 2016, è arrivata all’ex premier italiano una fotografia con tenda completamente sommersa dalla neve, accompagnata da una battuta sarcastica: «Anche qui ad Amatrice non possiamo sciare».

Bisognerebbe consigliare ai personaggi pubblici troppo tentati dall’apparire simpaticoni un uso parsimonioso di Twitter. Mai lasciarsi prendere la mano dal narcisismo presenzialista. Lo stesso Renzi (3–) ha sentito l’esigenza, nei primi giorni dell’anno, di avvicinare l’elettorato postando il suo commento su una trasmissione televisiva: «La magia della danza e la straordinaria forza del messaggio di Roberto Bolle ieri hanno incantato tantissimi italiani». Embè! Ce lo doveva dire lui? Matteo Salvini, che ha annunciato di essere nella «splendida Valtellina», si è beccato l’opportuna ironia di un elettore ben contento di essere lontanissimo da lì. Molto più apprezzabile la compostezza del presidente francese Emmanuel Macron che ai suoi due milioni e mezzo di followers ha inviato semplicemente gli auguri per il 2018 senza troppe spiritosaggini. O la sobrietà di Paolo Gentiloni che per l’anno nuovo si è limitato a consigliare di avere fiducia nel proprio paese. Punto.

Pare che il presidente Trump sia dipendente da Twitter come un alcolizzato dal vino. Un reportage sulla sua giornata tipo ha rivelato che si sveglia alle 5.30 del mattino e senza alzarsi dal letto si sintonizza subito sulla Cnn cominciando a twittare come un forsennato prima ancora di andare a far pipì. «Twitter è per Trump la sua Excalibur» secondo il «New York Times». Excalibur era la misteriosa spada infissa nella roccia che bisognava estrarre per diventare re: secondo la leggenda ci riuscì il buon Artù (6), così come il tycoon a stelle e strisce è riuscito a impadronirsi della presidenza americana grazie ai social network. Ma re Artrùmp purtroppo, nonostante il fantasmagorico parrucchino monoblocco che gli copre il cranio, non è una leggenda ma una autentica sciagura. Non è scientificamente provato, ma è probabile sulla base di raccomandazioni della scienza in considerazione degli standard e dei desideri della comunità.