Paradisi infernali

/ 11.11.2019
di Franco Zambelloni

I casi di tossicodipendenza risultano in crescita: il numero di soggetti seguiti da Ingrado – l’associazione di prevenzione, ma anche di assistenza ai tossicodipendenti – è cresciuto di molto lo scorso anno; e se la cocaina è la sostanza che crea più dipendenza, sono però gli alcolisti a costituire la maggior parte della casistica. Ed è inquietante che il consumo di droghe sia oggi così diffuso, molto più che in passato: del resto, anche i mezzi per procurarsele sono aumentati, perché si possono produrre in laboratorio nuove sostanze che ancora non sono classificate tra gli stupefacenti e quindi si possono ordinare via Internet o per posta. Ma per quale motivo persone che, magari, stanno bene, non patiscono la fame, dispongono di cure in caso di malattie e non hanno gravi problemi, sentono il bisogno di ricorrere a questi mezzi di piacere artificiale?

Forse è perché, secondo la logica consumistica d’oggi, non si ha mai abbastanza di nulla: e quando hai provato il sesso, le grandi abbuffate, lo shopping compulsivo, vuoi provare dell’altro. O forse tutto comincia per caso: che so, con lo «sballo del sabato sera», che poi si ripete il sabato dopo e a poco a poco si estende ad altre sere della settimana. Quel che dapprima può essere divertimento e piacere, diventa così bisogno e dipendenza.

Però non posso non fare un confronto con il tempo, ormai lontano, in cui ero studente all’università. Certo, nel gruppo di amici c’erano spesso ragioni per festeggiare: un esame superato, un compleanno, un successo sportivo... Ci si ritrovava all’osteria, si brindava. Credo che ciascuno di noi abbia ecceduto nel bere almeno una volta: però, in genere, accadeva una volta sola. Quando, la mattina dopo, ci si risvegliava con un orribile mal di testa, ci si ricordava stesi sul letto con la stanza che girava vorticosamente producendo un terribile senso di malessere, e, ancora, si rivivevano le figuracce fatte lungo la strada del ritorno a casa, il pensiero che nasceva era: «Mai più!». E di fatto era così, per tutti gli amici che ho conosciuto allora: riconoscere l’errore costituiva l’occasione educativa per non commetterlo più.

Per molti, oggi, non è più così. Ma forse questo accade perché il motivo di fondo non è la ricerca del piacere e del divertimento occasionale, ma un bisogno di evasione, di fuga da una realtà che non soddisfa. Molti casi del passato, anche di uomini celebri, si riconducono a una condizione simile: nell’Ottocento lo scrittore Thomas De Quincey divenne famoso pubblicando le sue Confessioni di un mangiatore d’oppio. Si era dato all’oppio una prima volta da studente, per lenire i dolori allo stomaco di cui soffriva; il farmaco causò poi una dipendenza dalla quale lo scrittore tentò ripetutamente di liberarsi, con successi temporanei e successive ricadute. Dopo la morte della moglie seguì la ricaduta più grave: il dolore spingeva a cercare conforto nel farmaco. E quanti altri uomini famosi fecero ricorso a sostanze stupefacenti, da Freud a Gottfried Benn, a Baudelaire, a Hesse…

Baudelaire, appunto, scrisse sul vino e sull’hashish «confrontati come mezzi di moltiplicazione dell’individualità» e nel 1851 pubblicò il suo scritto con il titolo Paradisi artificiali. «Paradisi», appunto: quanti medici dell’antichità (come Galeno), quanti mistici si procuravano evasioni e visioni mistiche di paradisi indotti da erbe allucinogene! L’imperatore Nerone chiamava «cibo degli Dèi» il fungo allucinogeno del quale andava ghiotto; e l’antropologo Piero Camporesi ricorda che quando i missionari, sbarcati nel Nuovo Mondo, assaggiarono un fungo di quelle foreste lo chiamarono «carne di Dio» per le visioni celestiali che procurava. Insomma, il bisogno di paradisi che ogni cultura ha sempre documentato e coltivato non è affatto scomparso: solo che oggi, in tempo di progressiva demitizzazione – per usare l’espressione del teologo Rudolf Bultmann – sempre meno si crede al paradiso di Tommaso d’Aquino e di Dante e sempre di più lo si cerca qui, sulla Terra.

Non credo che questa svolta sia davvero positiva. Per l’uomo è più utile sperare in una qualsiasi sorta di paradiso ultraterreno, di beatitudine fuori del mondo e al di là di questa vita, piuttosto che procurarsi uno stordimento temporaneo dentro paradisi artificiali: quel che più aiuta a vivere è la speranza, il sogno di ciò che non è dato – insomma, ciò che spinge a dare un senso all’esistenza; non il piacere del momento che poi, nelle crisi da dipendenza, si tramuta in un inferno.