Ad Asti lo struscio si faceva in corso Alfieri. Se mi avessero detto che il ragazzo che camminava su e giù al mio fianco sarebbe diventato Paolo Conte gli avrei chiesto: come saremo a 80 anni? Avrei preso appunti e adesso sarei in grado di scrivere un degno omaggio all’amico che il 6 gennaio ha compiuto 80 anni. Ricordo solo che la nostra generazione era infatuata da Cesare Pavese, mi ero fatto degli occhiali con il vetro al posto delle lenti per assomigliare allo scrittore e fare colpo sulle nostre compagne, figuriamoci! Paolo: «Mio padre ha letto Il mestiere di vivere e dice che Pavese non ci sapeva fare con le donne». Da quel giorno via gli occhiali! Ho lasciato Asti a 18 anni, ci torno per farmi raccontare Paolo da suo fratello Giorgio e dagli amici che hanno continuato a frequentarlo, mio cugino Ottavio Coffano, pittore e scenografo, sua moglie Gabriella Forno, attrice.
Anni fa sono stato a un suo concerto, uno dei pochi dati ad Asti. Era all’aperto, nel cortile del Palazzo del Collegio, una volta lì c’era la nostra scuola elementare, intitolata all’ammiraglio Umberto Cagni, una delle poche istituzioni di Asti che non porta il nome di Vittorio Alfieri, da noi chiamato confidenzialmente «Toju il Trageda». Toju festeggia il compleanno il 16 gennaio e tutti gli anni, in quella data, gli insegnanti ci portavano al teatro Alfieri per assistere a una sua tragedia con gli attori che indossavano un corto gonnellino a pieghe, i calzari sopra le gambone bianchicce e pelose, declamando quei versi dove un solo endecasillabo può contenere cinque battute. Paolo canta: «L’uomo che è venuto da lontano ha la genialità di uno Schiaffino»: anche la passione di Paolo per il calcio viene da lontano. Aveva fondato una squadra, disegnando le maglie e curando tutti i dettagli. Per me, che non ho mai saputo giocare, non c’era posto. Potevo solo stare ai bordi del campo a prendere appunti per scrivere la cronaca delle partite.
Devo prendere l’ultimo treno della notte per ritornare a casa. «Attenzione al secondo binario. Treno in transito». Il merci che attraversa in piena velocità la stazione di Asti straccia la nebbia portata dal Tanaro. Al termine della banchina deserta una ragazza vestita di rosso canta. Per farsi coraggio. La nebbia che ritorna a folate abita i ricordi degli amici di Paolo. Una sera di nebbia come questa Ottavio Coffano era in un’auto con lui; stavano andando a Torino per ascoltare del jazz. Guidava Ottavio che a un certo punto si è messo a canticchiare «Solo me ne vo per la città…». «Ferma! Ferma!», ha urlato Paolo, costringendo l’autista a inchiodare. Paolo è sceso: «E adesso vai avanti da solo. Questa canzone porta sfiga».
In testa alla hit parade delle canzoni che portano male secondo Paolo Conte c’è Lili Marlene, in grado di farlo scappare via da qualunque ambiente se qualcuno accenna a cantarla e subito dopo viene Il valzer delle candele, una stilettata al cuore. Fin da ragazzo Paolo Conte ha difeso la sua vita privata con una fitta cortina fatta di silenzi, depistaggi, autoironie. Tutto inutile perché, trattandosi di un artista, vive dentro la contraddizione del nascondersi agli sguardi indiscreti e dell’esibirsi. Anche se le sue canzoni sono proiezioni oniriche, storie fantasticate e non vissute, messe in scena nel teatrino della provincia. Il suo legame con Asti è fortissimo; lui stesso parla di un elastico che si tende man mano che si allontana fino al punto di costringerlo a tornare. Per Paolo anche gli oggetti hanno un’anima e se gli capita di sfiorare l’angolo di un tavolo, deve fare in modo di toccare anche gli altri tre, possibilmente senza farsene accorgere. Un tempo abitava al secondo piano di una casa di tre. Uscendo faceva in modo, con un delicato lavorìo di gomiti, di chiudere la porta senza toccare la maniglia. Se per disgrazia sfiorava il metallo, doveva salire al terzo piano e scendere al primo per completare i contatti e ristabilire l’equilibrio cosmico.
Paolo è un bravissimo solutore di rebus. Ricorda Ottavio Coffano che andavano a Bra a cena da un avvocato che li attendeva sulla soglia di casa proponendo un enigma e non li lasciava entrare fintanto che Paolo non l’avesse risolto. Una sera li accolse toccandosi una gamba e dicendo: «Due e sei. Il polpaccio sinistro». Paolo diede la risposta esatta: «La piovra». Io devo ancora capirlo adesso. Gabriella Forno ricorda gli inizi, quando Paolo radunava pochi amici attorno al pianoforte e diceva: «Proviamo a inventare delle storie senza capo né coda ma che abbiano un motivo conduttore». Gabriella respirava l’atmosfera della casa, con gli abat-jour, le opalines, i rumori ovattati, il giardino al di là dei vetri, gli antichi rituali dell’ospitalità e pensava: le storie che cerchiamo sono qui.
Paolo Conte gioca al risparmio, come Eugenio Montale che dipingeva usando i fondi di caffè. Lui si mette al confine delle storie che racconta, un confine che sovente è una camera d’albergo vuota, affacciata sul nulla. Paolo costruisce le sue canzoni con materiali poveri, di scarto, vecchie cartoline, copertine di dischi, storie ascoltate mille volte nei bar. È un dandy polveroso e supremo, che si nega con squisita cortesia e nonchalance. Con le sue canzoni Paolo secerne un balsamo che sana le ferite degli altri ma non la sua che resta immedicabile. È il destino e la condanna di ogni vero artista.