Ha ragione Antonio Gurrado, giornalista della «Gazzetta dello Sport» e amabile blogger: «Per chi ha una rubrichina quotidiana, scriverla oggi significa andare sul sicuro: qualsiasi cosa decida, avrà avuto torto», sia che parli dell’argomento pandemia, sia che ne scelga uno più leggero magari con l’intento di far capire che anche gli altri problemi non sono scomparsi. Sapendo di finire comunque nel torto, affronto il «pensum» girando attorno a quello che probabilmente dovremo affrontare per riprendere una normalità, cioè del dopo pandemia. Ne avrete già letti e sentiti tanti di analoghi tentativi (ottimo quello di Reto Ceschi nei «60 minuti» del 23 marzo con freschi e calibrati apporti «professional» via Skype). Saprete già anche che non è facile focalizzare situazioni legate a contingenze di cui non sappiamo niente, un «dopo» di cui tutti i «paletti indicatori» sono altamente dispersivi: si va dal «le crisi sono sempre un’opportunità» sino al «sarà una valle di lacrime», quest’ultimo presagio pronunciato da un politico giustamente lodato per aver tolto i conti del comune di Lugano dall’indebitamento eccessivo. Potenzialmente possono essere dieci, cento, mille i nodi futuri da fronteggiare, a partire da quelli urgenti e direttamente collegati al virus (politica sanitaria, costi ospedalieri, casse malati) per arrivare sino ai dolori sociali che il prolungato arresto dell’economia già sta causando e agli assilli (anche politici) che riguardano programmi, competenze, priorità, scelte e, soprattutto, decisioni da prendere.
Per «riempire» la mia rubrichina ho scelto tre «paletti indicatori» incontrati in momenti diversi, partendo da quello captato durante una passeggiata compiuta tra Cureglia e Origlio con giro attorno al laghetto, una delle ultime domenica ancora libere agli «over 75». Mentre la mente macinava le prime arzigogolazioni sugli effetti del Coronavirus che dopo Wuhan stava avviando il suo sterminio in Lombardia, camminando ho sentito: «Capisci: diventerà tutto “locale”». Era la frase pronunciata da un distinto signore appoggiato a un muretto vicino alla sede della Scuola Steiner. Ho pensato subito che parlasse del virus, della fine della globalizzazione, quindi del ritorno a un «locale» valido per una sorta di nuova economia smantellata e obbligata a ripartire. Così sono arrivato a immaginare quel «diventerà tutto “locale”» come la scintilla e al tempo stesso il traguardo di un cambio di paradigma che del resto un po’ in tutto il mondo riteneva necessario per frenare un sistema che, come dice Edgar Morin, con la globalizzazione ha imposto al mondo economico «l’interdipedenza senza solidarietà». Di sicuro se ne riparlerà.
Un secondo «input» l’ho avuto dal mio medico di famiglia. Da lui, che mi curava in febbraio per cosa marginale rispetto alla tempesta in arrivo, sento e condivido che il «Covid-19 è un virus democratico» perché colpisce tutti, dai barboni ai re. Il suo giudizio mi spinge nei giorni successivi a tener presente anche il lavoro di questa «fanteria» del nostro sistema sanitario. Ricordate i primi giorni? Quelli del «Non andate al pronto soccorso, telefonate e andate dal vostro medico...», appelli lanciati senza curarsi di quel che avrebbero causato ai dottori di famiglia e ai loro collaboratori? In pochi sinora l’hanno fatto: credo sia basilare che, assieme al plauso, venga perorata una rivalutazione del ruolo e dell’importanza di una figura che qualcuno programmava di soppiantare. Chi avesse qualche dubbio può scacciarlo leggendo la lettera inviata da 13 medici bergamaschi a una rivista medica inglese (https://catalyst.nejm.org/doi/full/10.1056/CAT.20.0080).
L’ultimo impulso me lo indica mia moglie. Assieme riflettevamo sul dopo di questo virus, e lei conclude dicendo: «Diventeremo tutti un po’ più poveri». Ah, la forza della preveggenza femminile! C’era tutto in quella considerazione scaturita dagli interrogativi sulla tenuta di un sistema economico che in Ticino è anche vassallo del frontalierato (e pensare che anime belle propongono di lasciare entrare solo i frontalieri impiegati nella sanità cantonale!). Anticipava persino gli scenari descritti due settimane dopo, sull’autorevole «MIT Technology Review», dall’editorialista Gideon Lichfield. Un solo esempio: controlli con obbligo di certificazione sanitaria immune da virus, un po’ simili a quelli in vigore da un decennio negli aeroporti, in futuro estesi a tutti i luoghi pubblici, dai parchi agli stadi, dalle palestre ai posti di lavoro, dai grandi magazzini ai night club. Lichfield conclude affermando che le cose torneranno alla normalità solo dopo molti mesi, e che «alcune cose non torneranno mai più». Per questo considero il «Diventeremo tutti un po’ più poveri» una sorta di prezzo giusto da pagare per tornare al «locale» e per riparare i danni di un virus democratico, dopo (quando?) che qualcuno (chi?) ci dirà che tutto è finito. E, visto che mi si darà comunque torto per l’argomento proposto, aggiungo una speranza: che per tutti ci sia, ancora e sempre, libertà di abbracciarsi e sentirsi vivi.