Ancora a Londra, si saranno detti i miei ormai pochi amici, ricevendo la solita cartolina dalla capitale inglese, proprio in questa stagione. Del resto, la loro intuibile ironia si giustifica e non mancano di esprimerla con osservazioni, ispirate al cosiddetto buon senso. Visitare insistentemente lo stesso luogo sottintende, per forza di cose, rinunciare a conoscerne altri, ugualmente meritevoli d’attenzione, magari più carichi di antichità, come Roma e Atene, o di esotismo, come Il Cairo, Samarkanda, Pechino, e via enumerando mete lontane, oggi raggiungibili. In altre parole, spendere tempo e denaro per un viaggio verso il già noto, anzi il risaputo, rischia di apparire una scelta fra lo snob e il maniacale, comunque una limitazione del proprio orizzonte culturale e umano. È un comportamento fisico e mentale, in cui evidentemente mi riconosco, sapendomi anche in buona compagnia. Cresce, insomma, il culto per una Londra, promossa a nuova «caput mundi», da intendere nel senso giusto della definizione: non un’iperbole campata in aria, bensì una constatazione verificabile. In questo caso, una realtà storica e politica. Per dirla con Beppe Severgnini, anglomane doc, conclusa l’epoca imperiale, la corrente si è rovesciata: «Non sono più gli inglesi ad andare nel mondo, ma è il mondo che viene sulle rive del Tamigi».
Al di là della battuta giornalistica, è un dato di fatto visibile: qui la molteplicità, assorbita dalla convivenza quotidiana fra diversi, persino diversissimi, funziona, almeno apparentemente. Ma di sicuro funziona, con effetti esemplari, la convivenza fra tradizione e modernità che ha cambiato, e continua a cambiare, la fisionomia di questa capitale, simile a un cantiere aperto alla sperimentazione. E così i vecchi simboli, Big Ben, Tower Bridge, Saint Paul si affiancano al The Shard, la scheggia del genovese Renzo Piano (cui la Royal Academy sta dedicando una grande retrospettiva) e alla Tate Modern degli svizzeri Herzog e De Meuron. Come dire, talenti stranieri che Londra ha fatto suoi, lungo un’incessante trasformazione, a ritmi intensi, di cui il turista assiduo ha potuto diventare il testimone. Una sorta di premio alla fedeltà.
Ed è, a questo punto, che s’inserisce il tema del tipo di forma turistica s’intende fare: cioè, come, quando, dove e perché partire. La scelta, proprio in autunno, concerne, in particolare le città.
Una meta che sta, infatti, godendo una crescente popolarità. Sembra quasi che, per un verso o per l’altro, si sia moltiplicato il numero delle città attraenti. Non si tratta soltanto delle canoniche città d’arte, ma anche di centri minori, magari poco costosi, ideali per lo shopping o i mercatini natalizi. Tanto che, in certi casi, paradossalmente, le città sono vittime della loro popolarità. Da Venezia a Barcellona, da Amsterdam a Praga, fra cui la nostra Lucerna, subiscono l’assalto dall’ormai deprecatissimo «turismo di giornata». Tuttavia, persino i grupponi di visitatori, in fila dietro la guida con l’ombrellino aperto, dovevano trovare un inatteso e qualificato difensore. Sulle pagine della NZZ, Tilman Allert, già docente di sociologia a Francoforte, finiva per assolvere questo andare per città, apparentemente insensato. In realtà esprime, magari goffamente, una legittima curiosità. In proposito, l’autore sottolineava l’importanza della guida, a cui spetta il compito di «dare un senso a qualcosa di vago qual è il bisogno d’evasione».
Forse è troppo chiedere a una categoria di persone chiamate a svolgere una funzione, multiforme, in bilico fra necessità d’ordine pratico e ambizioni culturali. Costrette, come succedeva prima della caduta del Muro, a rispettare le consegne del regime, raggirando le curiosità imbarazzanti dei visitatori occidentali. Ricordo che, a Pietroburgo, allora Leningrado, un turista svizzero toccò il tema della tolleranza nei confronti dell’omosessualità. «Non ci concerne, rispose la guida in perfetto tedesco. Nella nostra città, ce ne sarà, al massimo… uno». Negli USA, il guaio, invece, era spesso d’ordine linguistico. Nella bellissima Savannah, le mie modeste conoscenze dell’inglese furono messe a durissima prova: delle spiegazioni, fornite dalla guida ufficiale, non riuscii a capire una sola parola. Dopo di che, affidai la conoscenza della città ai passi in libertà, modo insostituibile per appropriarsi di un luogo estraneo.