Sugli scaffali delle librerie i volumi che hanno per tema la democrazia (i suoi affanni, la sua sorte, persino la sua morte) si stanno moltiplicando a vista d’occhio. Segno che il suo stato di salute negli ultimi anni è andato aggravandosi, portandola alla soglia della terapia intensiva. Circolano anche testi che riecheggiano antichi slogan maoisti, come quello del belga David van Reybrouck: Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico (Feltrinelli).
Ma quanto è veramente grave il quadro clinico della democrazia? La diagnosi varia da paese a paese, dato che ogni sistema ha sviluppato nel tempo una configurazione differente, in cui ha riversato le proprie esperienze storiche, le proprie regole elettorali, le proprie preferenze istituzionali. L’Italia non è la Francia, la Germania non è l’Inghilterra. E la Svizzera non è nessun altro; è per certi versi un caso unico («Sonderfall»), che combina parlamento (democrazia rappresentativa) e voto popolare attraverso iniziative e referendum (democrazia diretta).
Naturalmente esistono «marcatori» per giudicare la bontà, o l’efficacia, di questo o quel modello di democrazia. Alcune regole sono fondamentali e non si possono eludere: la presenza di una Costituzione discussa e approvata, il catalogo dei diritti e dei doveri, l’elenco delle libertà (di opinione, stampa, associazione, ecc.), la periodicità della chiamata alle urne, la divisione dei poteri eccetera. Nel 1984 Norberto Bobbio, intervenendo al convegno di Locarno sul futuro (omaggio a Orwell e al suo celebre romanzo), disse che «è poco probabile che uno Stato non liberale possa assicurare un corretto funzionamento della democrazia, e d’altra parte è poco probabile che uno Stato non democratico sia in grado di garantire le libertà fondamentali. La prova storica di questa interdipendenza sta nel fatto che Stato liberale e Stato democratico, quando cadono, cadono insieme».
All’Est sono tuttavia spuntate, dopo il crollo del comunismo, democrazie geneticamente manipolate. I media le definiscono «illiberali», ma è un controsenso, una contraddizione in termini. In realtà sono regimi autoritari, piante infestanti attecchite in paesi che non hanno mai veramente conosciuto il lungo e travagliato percorso del liberalismo storico.
Di questo si dice convinto Roger de Weck, nel suo ultimo saggio La forza della democrazia (Die Kraft der Demokratie), che reca come sottotitolo «Una risposta ai reazionari autoritari». Già «Chefredakteur» del settimanale tedesco Die Zeit e dal 2011 al 2017 direttore generale della SSR, de Weck appartiene alla non folta schiera dei liberaldemocratici che negli Stati Uniti chiamano «liberals». L’analisi che svolge ha già suscitato parecchio dibattito, non solo in Germania (dov’è uscito per Suhrkamp) ma anche nella Svizzera tedesca, giacché al referto (cause e sintomi della crisi) aggiunge una dettagliata farmacopea di rimedi possibili per rianimarla. Se intendono sopravvivere, e non soccombere alle oligarchie (poteri forti, grandi aziende) da un lato e alle oclocrazie (potere della folla) dall’altro, le democrazie devono trovare il modo di affiancare alle istituzioni tradizionali sedi di confronto in cui abbiano parte preponderante gli esperti, comitati in cui i progetti di legge passino al vaglio degli specialisti. Non per bocciarli preventivamente (qui saremmo alla tecnocrazia) ma per valutarne incidenza e impatto prima di trasmetterli al parlamento.
L’autore avanza dodici proposte di «rivitalizzazione», molte delle quali intersecano l’ecologia, filo rosso dell’intera argomentazione. Perciò de Weck insiste nella creazione di una seconda camera (o di una terza, in presenza di un sistema bicamerale, come quello elvetico) in cui le questioni ambientali ricevano una speciale attenzione. L’altra grande malattia di cui soffrono le democrazie occidentali è data dall’invecchiamento della popolazione. Di qui l’esigenza di abbassare il diritto di voto e di eleggibilità ai sedicenni. La «generazione Greta» ha dimostrato una sensibilità e una maturità invidiabili, non sempre riscontrabili nella cittadinanza più matura. Inoltre i giovani sanno muoversi nel mondo digitale con maggiore rapidità e destrezza dei loro genitori, spesso impacciati di fronte alle innovazioni provenienti da questo universo.
Non è qui possibile seguire tutti i punti di riflessione («Denkanstösse») che Roger de Weck elenca e discute. Un accenno tuttavia merita l’ultimo, il dodicesimo, là dove l’autore affronta la sfera dell’informazione. Non esiste una «buona democrazia» senza «buon giornalismo». L’esplosione della rete e dei media sociali fa credere che la democrazia diretta sia alla portata di tutti, una scorciatoia immediata, fors’anche divertente e soprattutto poco impegnativa. Ma è un’illusione che odora d’imbroglio. Perché ieri come oggi una democrazia solida ha bisogno di un cittadino informato e consapevole, aperto al confronto e al dibattito. Solo un giornalismo serio e credibile è in grado di arginare le tossine populiste e smascherare le false notizie che inquinano la nostra quotidianità.
Ossigeno per la democrazia
/ 22.06.2020
di Orazio Martinetti
di Orazio Martinetti