Trentadue anni, nata in Inghilterra da genitori pachistani, arrivata a New York a undici anni, Lina Khan è la nuova presidente della US Federal Trade Commission, l’agenzia americana per l’Antitrust che difende i consumatori e le aziende dalla concorrenza sleale. È un ruolo molto rilevante e alcuni pensavano che la Khan, pur facendo parte dell’Agenzia, non ne diventasse addirittura il capo: invece Joe Biden ha scelto così. Perché se c’è una cosa che in America unisce un pochino tutti, l’eccezione alla polarizzazione, è proprio lo strapotere delle grandi aziende, in particolare delle grandi aziende tecnologiche. «Big» è il problema, e la Khan è lì per risolverlo, assieme a un nutrito gruppo di deputati e senatori che, pur avendo idee e posizionamenti diversi, considera lo strapotere di Big Tech un problema non soltanto economico ma della tenuta stessa del dibattito democratico in America.
La Khan ha un curriculum solidissimo ed è da sempre battagliera. Le cronache raccontano (lei è molto riservata: si sa solo che è sposata con un cardiologo) che quando era al liceo organizzò la sua prima manifestazione contro Starbucks che vietava agli studenti della sua scuola di sedersi ai suoi tavolini perché li considerava troppo rumorosi. Gli studenti furono riammessi, la questione finì sulle pagine del «New York Times». Nel 2013, scegliendo le caramelle per fare «dolcetto-scherzetto» ad Halloween, si accorse che anche negli scaffali del supermercato c’era un problema riguardo al «Big»: moltissimi prodotti ma pochissimi produttori, Big Candy appunto. Scrisse in un suo studio che quella era l’ennesima dimostrazione che c’era un problema di concentrazione di potere e influenza che le leggi americane non erano più in grado di risolvere.
Lo studio più importante della Khan però riguarda Amazon. Quando fu pubblicato dalla rivista della scuola di legge di Yale, nel 2017, fece drizzare i capelli a Jeff Bezos, patron di Amazon, e a tutti i grandi operatori del settore digitale (Amazon costituisce un caso particolare perché grande parte del suo lavoro che non è digitale: è logistica). Il paper si intitolava Amazon’s Antitrust Paradox (https://www.yalelawjournal.org/note/amazons-antitrust-paradox)e proponeva un cambiamento di paradigma nell’affrontare le politiche sulla concorrenza: da decenni ormai queste si concentravano sui prezzi.
Tradizionalmente, gli atteggiamenti cosiddetti monopolistici hanno un impatto sui prezzi, che aumentano per i consumatori. In assenza di concorrenza, le aziende caricano di più l’utente finale che quindi vede aumentare il prezzo di un servizio o prodotto che, in un regime di concorrenza, costerebbe di meno. Ma il paradosso di Amazon è proprio qui: i prezzi sono bassi, anzi spesso sono i più bassi ritrovabili sul mercato. A maggior ragione le piattaforme social, come Facebook, non hanno un impatto sui prezzi: offrono anzi la gratuità come loro elemento fondativo. Eppure sono «Big», eccome, sono quasi dei monopoli. Il problema allora sta altrove. Secondo la Khan, «anche quando i servizi sono buoni per i consumatori, possono comunque danneggiare un altro tipo di interesse, che sia quello dei lavoratori, della formazione e sopravvivenza delle altre aziende, della democrazia in senso generale». È questa la distorsione del mercato operata oggi da Big Tech: non si vede perché lo strumento di lettura è solo il prezzo, ma c’è. Le aziende più piccole non riescono a competere e quindi muoiono; le condizioni dei lavoratori sono spesso pessime, come dimostrano le continue inchieste interne alle aziende tecnologiche: da ultimo, il «New York Times» ha pubblicato un enorme lavoro giornalistico frutto di centinaia di conversazioni dentro Amazon in cui emergono inefficienze nella gestione del personale tali che qualcuno è stato licenziato perché secondo il sistema automatizzato interno non risultava al lavoro quando era soltanto in un altro blocco dello stabilimento. La battaglia per avere un sindacato dentro lo stabilimento Amazon in Alabama è fallito, ma il fatto che le condizioni di lavoro non fossero molto accoglienti (eufemismo) è comunque emerso con chiarezza.
Dal punto di vista sistemico, quello che la Khan indica come un problema per la democrazia stessa riguarda il fatto che l’infrastruttura digitale americana (e globale) dipende da poche aziende che sono anche quelle che definiscono le regole: l’impatto è enorme per quel che riguarda il dibattito pubblico (politico e culturale) e per quel che riguarda per esempio la privacy e la gestione dei dati.
Secondo la Khan l’approccio dell’Antitrust deve cambiare perché quello attuale non è adattabile a prodotti e servizi dell’èra digitale: propone però di recuperare un’ispirazione antica, che era quella del presidente Teddy Roosevelt, che andava lui stesso contro i grandi monopoli.
Le tecniche sono moderne ma il metodo no: l’interventismo del Big government è di nuovo considerato vitale, in questo caso «Big» non costituisce per la Khan un problema.
Ora i Big Tech tremano
/ 28.06.2021
di Paola Peduzzi
di Paola Peduzzi