Omaggio a Orwell

/ 13.01.2020
di Paolo Di Stefano

Inaugurare un nuovo anno nel segno di Eric Arthur Blair non è un cattivo segnale, trattandosi di George Orwell, morto il 21 gennaio 1950, dunque esattamente settant’anni fa. Evviva gli anniversari, quando invitano a parlare di ciò che ci piace. E Orwell ci piace (6+), non solo perché la distopia che racconta ne La fattoria degli animali e in 1984 è uno dei pochi casi di autentica profezia letteraria, ampiamente realizzata prima con la globalizzazione che uniforma tutto e poi con la Rete che controlla tutti. Non solo. In una pagina di Come funzionano i romanzi, pubblicato anni fa da Mondadori, il critico del «New Yorker» James Wood segnalò un dettaglio straordinario nella prosa di Orwell: nel saggio Un’impiccagione lo scrittore-cronista descrive il condannato che, diretto al patibolo, si sposta di lato per evitare una pozzanghera. «Pur non avendone più alcuna buona ragione, il condannato pensa ancora a non sporcarsi le scarpe». Wood paragona quella scena a una sequenza di Guerra e pace, dove Pierre nota che un uomo, appena prima di essere fucilato dai francesi schierati davanti a lui, si sistema la benda sulla nuca, perché evidentemente gli dà fastidio. Su simili vertiginosi dettagli dell’insignificanza si fonda la grande letteratura.

In un altro celebre saggio, intitolato Perché scrivo, Orwell elenca sostanzialmente quattro ragioni, esclusa la necessità di sbarcare il lunario, che ispirano lo scrittore: 1. Il puro egocentrismo e narcisismo, che consiste nel desiderio di apparire intelligente, di far parlare di sé anche dopo la morte, di riscattarsi di fronte agli adulti che lo ignoravano da bambino. Sarebbe ipocrita, osserva Orwell, fingere che queste non siano serie ragioni che peraltro avvicinano lo scrittore e l’artista in genere agli scienziati, ai politici, agli avvocati, ai militari, agli uomini d’affari e a tutte le persone di successo. 2. Quello che Orwell chiama «entusiasmo estetico», cioè il piacere che lo scrittore prova nel combinare i suoni di una lingua per formare una buona prosa e dare un ritmo alla sua storia e condividerla con i lettori. 3. L’«impulso storico», ovvero «il desiderio di vedere le cose come sono, di scoprire la verità dei fatti e tenerla in serbo per la posterità». 4. L’intento politico (in senso ampio): si tratta del proposito, più o meno rivelato, di «spingere il mondo verso una direzione», di cambiare l’idea che gli altri hanno della società.

Orwell sostiene che «non esiste un libro autenticamente immune da pregiudizi politici» e che già l’idea che l’arte non dovrebbe aver niente a che fare con la politica è una idea politica. Orwell si dichiara scrittore politico: il suo tentativo è quello di «trasformare la scrittura politica in un’arte» aggiungendo: «Nel rivolgere lo sguardo alla mia opera mi rendo conto come sia proprio quando non avevo prefissato un obiettivo politico che ho puntualmente scritto libri smorti, lasciandomi ingannare dai fraseggi fioriti, dal periodare privo di senso, dagli aggettivi insulsi e, in sostanza, dalle fandonie».

Eppure le sue premesse politiche lo portano a essere tutt’altro che ideologico, un anticomunista, un antifascista e un anticapitalista, un socialista per nulla ortodosso, un rivoluzionario e insieme un conservatore, come disse Giorgio Manganelli, suo massimo ammiratore. Per diventare uno scrittore «politico», da gentleman impoverito (di famiglia upper-middle class) ma rimasto alquanto snob, Orwell per cinque anni operò in Birmania come poliziotto della Polizia imperiale (ne venne fuori Giorni in Birmania); partì per la guerra civile spagnola (ne venne fuori un capolavoro di giornalismo narrativo come Omaggio alla Catalogna); si inabissò nel ventre di Parigi facendo il lavapiatti nei luridi sotterranei di un albergo di lusso, proseguendo l’esperienza di vagabondo nei bassifondi inglesi (ne venne fuori un racconto alla Jack London, Senza un soldo a Parigi e a Londra).

Orwell ebbe pure i suoi tenaci avversari. Per esempio, il poeta T.S. Eliot, che da editor di Faber & Faber respinse La fattoria degli animali. Era il 1944 e quella allegoria cupa sull’umanità fu rifiutata da tanti editori: il fatto che gli animali si rivoltano ai padroni per diventare indipendenti producendo dal loro interno una nuova classe di padroni, denotava un pessimismo troppo radicale proprio quando si doveva aprire qualche spiraglio di speranza. Allorché l’editore Warburg decise di stamparlo, nell’agosto 1945, fu però un successo che consentì a Orwell di comperarsi una casa sull’isola di Jura, al largo della Scozia.

Pur essendo già consumato dalla tubercolosi, nel biennio 1947-1948 portò a termine il romanzo del Grande Fratello, che doveva intitolarsi The Last Man in Europe (L’ultimo uomo in Europa). Secondo Warburg, forse per ragioni legate allo stato fisico dell’autore, 1984 è un libro che «non concede al lettore alcuna speranza, neppure quella di una minuscola, tremolante luce di candela».