Ode alla scrivania

/ 12.11.2018
di Natascha Fioretti

Non so quale sia il vostro angolo preferito della casa, quello dove vi ritrovate più spesso e vi sentite davvero comodi e in pace con il mondo. Per me è lo studio, anzi, la mia scrivania. Di legno chiaro, fatta artigianalmente con tavoloni rustici che mostrano tutti i loro nodi e le loro venature, un piano di lavoro ampio che misura un metro per due e poggia su due semplici cavalletti di legno. Un regno tutto per me con vista sul mondo. Sin da quando ero ragazzina, da quando ai tempi del liceo ho iniziato a studiare letteratura tedesca e inglese, la scrivania è sempre stata uno dei miei luoghi preferiti. Dico luogo, anche se la scrivania di per sé è un oggetto, perché le ore trascorse qui spesso conducono altrove. 

Mio nonno ne aveva una in legno massiccio scuro, quando era a casa si rintanava nel suo studio in mansarda, il suo regno, la sua isola dal frastuono quotidiano. Le mie riflessioni sulla scrivania, il suo essere un luogo identitario e creativo sono nate nella mia testa mentre la settimana scorsa, a passi veloci, camminavo per le vie di Amburgo e mentre sedevo nei diversi Starbucks a lavorare con il mio pc portatile, le mie cuffie, il mio telefono. Non a caso la prima schermata del nostro pc si chiama desktop – cioè scrivania o tavolo da lavoro. La scrivania nell’epoca digitale è soprattutto un concetto mobile, impalpabile che si materializza non appena troviamo una fonte di energia elettrica o wi-fi. Può essere quasi ovunque, in mezzo al frastuono e all’andirivieni di persone.

Cosa ne penserebbero Goethe e Schiller? Faccio questi due nomi, se ne potrebbero fare tanti altri, perché mi sono tornate in mente le loro case a Weimar che visitai durante un Interrail estivo ai tempi dell’Università. Lo studio di Goethe è verde perché il verde secondo la sua teoria dei colori conferisce «vero appagamento», dunque il colore perfetto per la stanza nella quale trascorreva gran parte del suo tempo. Solitamente al mattino dedito a concludere alcune delle sue ultime grandi opere, ad esempio la seconda parte del Faust. Per il resto dello studio Goethe scelse mobili funzionali e modesti che a suo avviso contribuivano ad elevare il suo pensiero e a metterlo in una condizione passiva necessaria per poter scrivere.

Anche per Schiller lo studio era il rifugio dove ritirarsi a leggere, riflettere, scrivere le sue tragedie e corrispondere con il suo amico Goethe. C’è chi ha scritto che la scrivania per lui era una cura, un riparo dalle malattie, Schiller era di salute cagionevole, morì di polmonite a soli 45 anni.

Ma quello che è importante ai fini della riflessione intorno alla scrivania è quello che comporta e significa. Le prime parole che mi vengono in mente: rituali e abitudini. In proposito è interessante il libro uscito qualche anno fa Musenküsse: Die täglichen Rituale berühmter Künstler (Verlag Kein & Aber) che racconta di come Schiller tenesse nel cassetto della sua scrivania alcune mele lasciandole lì a marcire perché l’odore del deperimento e del decadimento lo ispiravano e lo aiutavano a trovare il giusto mood per la scrittura. Ora non siamo certo tutti grandi scrittori ma la ricerca di un ritmo, di abitudini che ritornano, di rituali che si ripetono è un qualcosa che tutti ricerchiamo nella nostra vita quotidiana e che contribuiscono a dare una cadenza, un equilibrio e una profondità alla nostra esistenza che ha bisogno anche di momenti di silenzio, ritiro, concentrazione, momenti vuoti in cui viaggiare con il pensiero. E mi pare che nel nostro tempo, in cui tendiamo a rendere tutto mobile e portatile, questa dimensione stia svanendo. Possiamo portarci dietro il pc, il telefono ma non la nostra scrivania, il nostro studio, le loro atmosfere, odori e silenzi. 

Voglio dire che forse la nostra idea di umanità mobile, produttiva ed efficiente in ogni dove e tempo, nel lungo termine, sia soltanto una grande illusione alimentata dalla vertigine digitale della nostra epoca che sempre di più mette a dura prova i nostri equilibri interiori.