«Ci sono siciliani taciturni e ci sono siciliani fragorosi di vita. Io appartengo ai secondi». Chi parla è Ferdinando Scianna, detto «Papa Fotografia», che ha appena compiuto ottant’anni. Scianna è nato a Bagheria, abbastanza lontano da Palermo (tredici chilometri) da non sentirsi cittadino della «capitale», ed essere invece un uomo di campagna, da buon figlio di benestanti coltivatori di limoni (il padre) e di falegnami (da parte di madre). Scianna è stato amico di Leonardo Sciascia, che lo considerava il figlio maschio che non aveva avuto. Un altro suo amico è stato Henry Cartier-Bresson, che lo ha presentato all’agenzia delle agenzie, la Magnum propiziandone l’assunzione a New York (Scianna fu il primo italiano della Magnum).
In un’intervista bellissima fatta da Marco Belpoliti (5½) e pubblicata su «Doppiozero», Scianna (6+) dice tra l’altro che ha avuto un formidabile maestro: lo storico dell’arte Cesare Brandi, che a Palermo teneva dei corsi universitari sulla Cappella Brancacci. Ferdinando si era iscritto a Lettere anche se suo padre (quello naturale) avrebbe preferito che studiasse giurisprudenza o ingegneria: aveva imparato molto anche dal poeta dialettale (di Bagheria) Ignazio Buttitta e dall’etnomusicologo Roberto Leydi che, capitato in Sicilia per fare le sue ricerche, gli disse che per diventare fotografo avrebbe dovuto trasferirsi a Milano. Scianna nel 1967 si trasferisce a Milano e lì comincia la sua carriera di autodidatta al settimanale «L’Europeo», dove lavora per diciassette anni facendo anche il corrispondente da Parigi. Il suo motto è quello di un maestro del reportage on the road, il fotografo e regista svizzero-americano Peter Franck, cioè stare attento, andando in giro, se Dio fa capolino da qualche angolo. Cogliere l’istante che abbia un senso. Scianna lo coglie spesso: nel 1965 aveva pubblicato un libro fotografico sulle feste religiose in Sicilia con prefazione di Sciascia, e da allora i libri sarebbero diventati la sua vera passione di fotografo ma anche di scrittore, meglio di «fotografo che scrive», come si definisce.
Da cronista di nera a fotografo è il passaggio vissuto da Carlo Dondero (1928-2015), la cui retrospettiva a Palazzo Reale di Milano è da non perdere (6-): il titolo, La libertà e l’impegno, dice quasi tutto della sua attività di fotoreporter senza scopo estetico, attratto solo dalla verità e dalla vita, nostalgico della «vita agra» vissuta ai tempi di Luciano Bianciardi e di Ugo Mulas dalle parti di Brera e del caffè Giamaica negli anni Cinquanta. Parigino anche lui per lunghi anni, Dondero, come Robert Capa, era un genio non dell’arte della fotografica tout court, ma dell’arte di testimoniare con l’obiettivo il mondo che soffre, che cerca, che muore, che inventa, che si muove, che arranca, che combatte, che rinasce: la Milano della ricostruzione, la Francia del Nouveau Roman, di Sartre, di Theodorakis, la Praga della Primavera, la Lisbona di Salazar, Panagulis e i colonnelli, Berlino nei giorni della caduta del Muro, l’Afghanistan soccorso da Emergency. E i grandi personaggi del Novecento: Pasolini con sua madre Susanna, Fidel Castro, Moravia, Elsa Morante, Beckett, Ionesco, Glenda Jackson, Bacon. Angelo Ferracuti, più giovane amico e allievo-scrittore oltre che suo concittadino di Fermo (nelle Marche), ha raccontato la vita di Dondero in un formidabile romanzo-verità (Non ci resta che l’amore, Il Saggiatore), da cui affiorano fragore di vita, felicità di sguardo, il Dio che fa capolino. Dondero redivivo sarebbe corso a fotografare il sangue di Kiev e poi avrebbe attraversato l’Europa per riprendere gli scontri delle banlieues parigine. Mai fermarsi a Fermo era il suo fermo proposito.
Un tratto in comune tra Dondero e Scianna è la statura: due uomini piccoli, poco più di uno e sessanta, che fotografano il mondo e gli esseri umani dal basso, ad altezza cuore. «Se le tue foto non sono abbastanza belle è perché non sei abbastanza vicino», diceva Capa. Vicino al cuore del mondo, intendeva. Per Capa, per Dondero e per Scianna vale la frase di Mark Twain: «Non potete fare affidamento sui vostri occhi se la vostra immaginazione è fuori fuoco».
Buona estate, con l’augurio di fare pochi selfie e di mettere a fuoco l’immaginazione.