Le ormai celebri esternazioni del presidente dell’Udc nazionale, Marco Chiesa, sul rapporto, a suo dire unilaterale e malsano, tra la città e la campagna hanno riacceso i riflettori su un groviglio di questioni che ha accompagnato come un torrente carsico l’evoluzione della Confederazione fin dall’epoca rinascimentale. Tensioni, disagi e conflitti non sono mai scomparsi; anzi, come testimonia l’agenda politica, guadagnano la luce a scadenze regolari, che si parli delle residenze secondarie o dei canoni d’acqua, della gestione del lupo o delle sovvenzioni all’agricoltura.
La discussione ha ripreso quota da tempo anche nel nostro cantone, a margine del concetto di «Città Ticino», che alcuni – sbrigativamente – riconducono ad una visione urbano-centrica del territorio, un unico e continuo tessuto punteggiato di nodi («poli») interconnessi dalla rete viaria e ferroviaria. Non è così, naturalmente. Per rendersene conto, basta alzare lo guardo, osservare i rilievi e le vette che sovrastano i fondivalle percorsi dalle grandi vie di comunicazione, seguire con l’occhio le linee degli insediamenti, inventariare i «pieni» e i «vuoti», le zone abitate e quelle rimaste spoglie, abbandonate e occupate da sterpaglie. La prima, superficiale impressione è quella di assistere ad un Ticino che marcia a due velocità; veloce e propulsivo, quello cittadino; lento e anchilosato quello rurale. Ma poi, aguzzando la vista, si scopre che tale dicotomia funziona solo in parte, dato che negli ultimi decenni la città ha rotto gli argini diventando conglomerazione. In tal modo ha occupato a macchia d’olio le zone circostanti collinari, sull’onda di uno sviluppo edilizio senza precedenti.
All’esame di queste dinamiche, con puntuali riferimenti ai trascorsi demografici otto-novecenteschi, lo storico Luigi Lorenzetti, responsabile del Laboratorio di storia delle Alpi, ha dedicato un sintetico ma denso saggio: La città Ticino e il rapporto tra «terre alte» e «terre basse» (il testo è consultabile come epaper sul sito www.coscienzasvizzera.ch). L’autore ricorda che lo spopolamento delle valli aveva allarmato l’opinione pubblica già nella seconda metà dell’Ottocento, in concomitanza con i forti espatri verso l’Australia e la California, fenomeno grave sia in termini quantitativi sia in termini socio-economici, giacché privava la fascia alpina di preziose risorse umane. Quell’esodo colpì per la sua ampiezza, ma le partenze proseguirono in modo surrettizio anche nel ventesimo secolo. I distretti montani, con in testa Leventina, Blenio e Vallemaggia, continuarono a perdere abitanti, sia pure con percentuali diverse. Quella leventinese è stata l’emorragia che ha maggiormente sfibrato la comunità locale, giacché nonostante gli sforzi e i piani di rilancio, in parte legati ad AlpTransit, è rimasta ai bordi dell’accelerazione urbana. Vedremo se i cantieri aperti, o in fase di apertura, riusciranno ad invertire la tendenza, soprattutto nell’alta valle.
Il vuoto non è soltanto demografico, anche se questo dato colpisce per la sua crudezza. Interrogare la demografia vuol dire infatti aprire molte finestre sullo stato di salute di una comunità, sul suo spirito imprenditoriale, sulla capacità di avviare iniziative, sulla sua vivacità culturale. Ogni programma, anche il più innovativo, è destinato a fallire in assenza di un adeguato sostrato di forze vive, giovani e creative. Un tempo, ricorda ancora Lorenzetti, la montagna dialogava ad armi pari, o quasi, con la città. In ogni paese c’erano scuole, osterie, negozi di alimentari, uffici postali; nei centri più popolosi, come a Faido, sorgevano eleganti alberghi in grado di attirare la buona borghesia sin da Milano; e gli ospedali non erano ancora considerati una zavorra insostenibile. Poi, certo, a dare una mano c’era la Confederazione, la Berna delle FFS, delle PTT e dell’esercito, per molte economie domestiche una manna.
Ora tutto questo ha subìto un forte ridimensionamento, accentuando sentimenti di sfiducia e talvolta di astio verso le autorità. Ricette pronte all’uso non esistono, ma già l’approccio scelto da Lorenzetti nel suo saggio suggerisce una possibile soluzione: fare in modo che la montagna possa riprendere a vivere sulla base di un oculato ripopolamento e di politiche che valorizzino le risorse locali. Alcuni segnali sono già visibili, come il micro-esodo dagli agglomerati urbani provocato dalla pandemia (telelavoro), la riscoperta di coltivazioni abbandonate, il turismo di prossimità fondato sul rispetto. Ma sicuramente contrapporre la città alla campagna non ha senso. «Solo appoggiandosi alle città – sottolinea Lorenzetti – i territori montani potranno diventare sedi di processi di innovazione e di apprendimento, in cui la città è chiamata a mediare i rapporti con le reti sovra-locali e a interagire con le peculiarità dei territori locali».
Obiettivo: riabitare la montagna
/ 30.08.2021
di Orazio Martinetti
di Orazio Martinetti