Gli antichi, un tempo, ripartivano la vita in tre o quattro età: infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia. In un quadro allegorico del 1539 il pittore Hans Baldung le riduceva a tre: infanzia, giovinezza, vecchiaia. Noi, oggi, siamo ritornati a parlare della quarta età, situandola però dai settantacinque anni in su; e poiché la speranza di vita si prolunga costantemente, la senilità si dilata di conseguenza: nel 2014 gli ultra sessantacinquenni erano ben il 21,6 per cento di tutta la popolazione del nostro cantone. Così gli equilibri tra le generazioni si modificano, mentre i cambiamenti sociali e culturali inducono profonde modificazioni nei loro rapporti.
C’è una fiaba dei fratelli Grimm che tratta di questo tema. Dice così: Dio dà vita a tutte le creature del mondo e a ciascuna assegna una specifica durata di vita. Ma l’asino, il cane e la scimmia implorano una riduzione; solo l’uomo vuole un prolungamento. Dio allora asseconda tutte le richieste e attribuisce all’uomo gli anni rifiutati dalle tre bestie: così, dopo i suoi trent’anni da uomo, l’uomo vive da somaro, poi da cane e poi da scimmia.
La fiaba è cattivella, ma le fiabe di una volta, tratte dalla tradizione popolare, non erano affatto quelle versioni mitigate ed edulcorate che più tardi sarebbero state rimaneggiate per i bambini: oggi noi ne assegneremmo molte, piuttosto, al genere horror. In ogni caso, per capire la versione dei Grimm, occorre considerare quale fosse in genere, nei secoli andati, la vita dopo i trent’anni. Non erano molti quelli che giungevano a 70 anni, e la soglia della vecchiaia era avvertita intorno ai 50. Servio Tullio – il più saggio dei sette mitici re di Roma – divise la popolazione in tre classi di età, fissando la vecchiaia dai 47 anni in avanti. Certo, c’erano le eccezioni (escludendo quelle improbabili della Bibbia, come nel caso di Matusalemme – morto a 969 anni); ma è ipotizzabile che il deperimento fisico e mentale, dopo i 60 anni, fosse abbastanza diffuso da giustificare la fiaba dei Grimm. Erasmo da Rotterdam, nel suo Elogio della follia, lodava il fatto che l’avanzare dell’età facesse «rimbambire» – cioè, letteralmente, «tornare bambini» –, così che il peso degli anni fosse reso più sopportabile dall’obnubilamento mentale.
Oggi le condizioni di vita, le precauzioni igieniche, le cure mediche e farmacologiche consentono un prolungamento della vita generalmente in buone condizioni. I progressi delle biotecnologie, poi, lasciano intravedere straordinarie possibilità di ritardare l’invecchiamento e compensare almeno in parte le perdite degenerative che si producono naturalmente nel corso della vita.
Sembra una prospettiva allettante. Ma affiorano anche dubbi, se ripenso a un racconto scritto negli anni Trenta del secolo scorso da Aldous Huxley che, come è noto, amava scrutare nel futuro con uno sguardo un po’ tetro. Nel racconto Dopo molte estati, lo scrittore immagina che estratti naturali di intestino di carpa siano capaci di prolungare enormemente la vita; purtroppo però la longevità risultante sfocia in un ritorno a una condizione di esistenza preumana, di tipo scimmiesco. Così, curiosamente, anche l’invenzione letteraria di Huxley si riannoda alla fiaba dei Grimm.
Difficile fare previsioni attendibili. Chi vivrà, vedrà. Ci sono però anche letture diverse del cambiamento culturale che contrassegna le età della vita. Max Horkheimer – il celebre sociologo della Scuola di Francoforte – dopo la metà del secolo scorso riduceva a due le età della vita: «Lo sviluppo ha cessato di esistere. Il bambino è adulto dal momento che sa camminare, e l’adulto resta di norma stazionario». Non è un giudizio positivo, perché nega che nella civiltà d’oggi abbia ancora luogo quella progressiva costruzione di sé che in passato caratterizzava le storie individuali. Horkheimer certo esagera nel suo enunciato così radicale; è però vero che la differenza tra giovani e adulti tende a ridursi, e la crescita interiore dell’individuo anche.
La vita, per gli antichi, doveva essere un percorso verso una crescente saggezza; e il compito di chi già l’aveva raggiunta con l’avanzare dell’età era quello di guidare il giovane verso la stessa meta. È ancora così? Non ne sono certo, ma ho l’impressione che ai nonni sia affidata la parte dei baby-sitter, la cura dei bambini finché sono nell’infanzia; poi, una volta che il giovane è giunto all’adolescenza, le parti si invertono: «Vieni, nonno, che t’insegno a vivere in Rete!».