Nuova legge elettorale

/ 06.11.2017
di Aldo Cazzullo

L’Italia si è data una legge elettorale; e quasi nessuno se n’è accorto. Sembra passata un’era geologica da quando 37 milioni di italiani parteciparono con un misto di indignazione e di entusiasmo al referendum sulla riforma del sistema di voto: era il 1993, oltre l’82% si espresse per abolire il proporzionale e passare al maggioritario. Un verdetto che la legge approvata la settimana scorsa dal Parlamento non rispetta, visto che i due terzi dei seggi sono assegnati appunto con il proporzionale, e solo un terzo con i collegi uninominali.

Ci sono paesi che votano con lo stesso sistema da secoli. Le norme con cui si elegge negli Stati Uniti d’America la Camera dei rappresentanti sono state scritte nel 1845 (quelle che regolano l’elezione del Senato sono più recenti, visto che un tempo i senatori erano indicati dai singoli Stati). Il sistema elettorale inglese ha tradizioni ancora più antiche. La Francia ha individuato da cinquant’anni un meccanismo che funziona, e infatti tranne un esperimento proporzionale voluto da Mitterrand per attenuare le dimensioni dell’annunciata sconfitta socialista (1986) l’ha sempre mantenuto. L’Italia ha varato quattro leggi elettorali in meno di 25 anni, e due – il Porcellum e l’Italicum – sono state giudicate in parte incostituzionali. Le norme uscite dalla sentenza della Consulta avrebbero provocato un’impasse, con due Camere elette con regole del tutto diverse. Per questo l’accordo vasto, sancito giovedì 26 ottobre dal voto del Senato, rappresenta un passo in avanti. Anche se non è questa la percezione dell’opinione pubblica.

Stavolta non si sono viste né passione né indignazione, a parte qualche migliaio di grillini in piazza. Eppure la riforma elettorale rappresenta un punto di svolta nella vita di una democrazia; ma il distacco tra cittadini e Palazzo non è mai stato così ampio.

Evocare il fascismo – come hanno fatto i grillini – sarebbe ridicolo se non fosse irrispettoso delle vittime del fascismo, quello vero. Restano valide obiezioni, sia nel metodo sia nel merito. Il ricorso alla fiducia da parte del governo, che restringe la discussione e rende la legge inemendabile, è oggettivamente una forzatura; né rasserena la consapevolezza che senza la fiducia il provvedimento non sarebbe passato. Le nuove regole consentono agli elettori di conoscere il nome degli eletti, ma non di sceglierli: questo vale sia per la quota proporzionale, sia per i collegi; che al Senato comprenderanno oltre mezzo milione di abitanti, vanificando la possibilità di un rapporto diretto tra i cittadini e i loro rappresentanti.

Comunque, un risultato politico lo si è ottenuto. Sia Napolitano sia Mattarella, ognuno a proprio modo, hanno espresso perplessità; ma il presidente emerito ha votato la legge, e il presidente in carica la firmerà. Verdini ha voluto apporre il proprio sigillo con un intervento in Senato che pareva pensato per creare imbarazzi e polemiche. I senatori leghisti sulla legge non hanno detto in aula neppure una parola. Renzi non ne è entusiasta ma evita l’umiliazione di ritrovarsi in un Parlamento con i grillini in maggioranza relativa. Bersani, entrato nella legislatura come leader del Pd, ne esce come capo di un partito di opposizione; mentre Berlusconi rientra in gioco. Grillo strepita ma sotto sotto non gli dispiace tornare a giocare con lo schema preferito: denunciare l’accordo di destra e sinistra unite contro di lui, e fare campagna nelle piazze.

Resta una grande incognita. La coalizione di centrodestra, in testa nei sondaggi, resterà unita nei prossimi anni? O è destinata a dividersi tra alleati della Merkel e amici di Marine Le Pen? I blocchi in competizione sono definiti dalle tradizionali categorie di destra e sinistra, o saranno ridisegnati sulla base dell’alternativa tra sistema e antisistema?

È possibile che le elezioni del marzo 2018 diano un verdetto definitivo e consegnino un mandato chiaro a governare. Ma questa legge sembra scritta apposta perché ogni capo porti in Parlamento i propri uomini, per poi giocarsi in proprio la partita. Berlusconi e Salvini formeranno una coalizione in cui nessuno dei due crede sino in fondo. Non c’è da stupirsi se all’indomani del voto il primo guarderà in direzione del partito democratico, e il secondo aprirà semmai una trattativa con Beppe Grillo.