Anzi. Quanto è avvenuto, di recente a Lugano, lo conferma inesorabilmente. Non solo il marchio, commissionato dall’ente turistico regionale, era brutto ma doveva rivelarsi forse un plagio, innescando così una polemica, del resto prevedibile. Dall’ambito artistico si scivolava su quello morale e giudiziario. E c’è dell’altro. L’incidente, infatti, ha riaperto gli interrogativi sulla reale efficacia dei marchi. Destinati a rendere riconoscibili prodotti, servizi, organizzazioni, partiti politici, raggiungono, in pratica, i loro obiettivi? Qui si tocca un aspetto cruciale della modernità: l’eccesso. Anche il logo ne ha subito le conseguenze. Citando, una volta di più, l’impareggiabile Gillo Dorfles, si è assistito all’horror vacui, la paura del vuoto, e quindi all’impegno per colmarlo: tanto che il nostro ambiente quotidiano è diventato «un immenso panorama visuale a rischio di saturazione, di usura e di perdita d’efficacia». Un allarme d’altro genere, improntato al tipico moralismo americano, doveva poi arrivare con Naomi Klein, autrice, nel 2000 del saggio No Logo. Vi denunciava la deriva del fenomeno branding, passato dalla promozione di singoli prodotti all’imposizione di un intero stile di vita, all’insegna del consumismo. Insomma, un messaggio chiaramente ideologico. D’altronde, il logo, e non da oggi, appartiene anche all’apparato propagandistico, preponderante nelle dittature. Svastica e falce e martello ne sono gli esempi più famosi e più infausti.
Ma per tornare al contestato logo luganese, l’episodio non è isolato. Rientra, piuttosto, in quel dibattito infinito che concerne la sorte, la vocazione, la definizione di una città che stenta ad accettarsi. Favorita dal paesaggio, dal clima, dall’appartenenza alla Confederazione elvetica, sembra, però, incapace di riconoscersi nelle sue reali dimensioni, in quanto territorio e popolazione. Certo, da questa visione irrealistica possono derivare stimoli positivi, la voglia di crescere e di affermarsi alla grande, ma anche la voglia di strafare e di coltivare ambizioni confuse e, non da ultimo, grazie a una definizione-slogan che ne esprima inconfondibilmente l’identità.
In verità, a Lugano erano già spettate etichette diverse. Risalendo alla belle époque, sul biglietto la visita, la città si presentava come centro di turismo elitario. E, ovviamente, dato che allora esisteva solo quello. In seguito, fu la volta, di «Sonnenstube», titolo condiviso con l’intero cantone, quando accoglieva vacanzieri svizzerotedeschi e orologiai romandi, prima dell’era voli low cost, che li avrebbero dirottati verso il Mar Rosso e affini. Subentrò, nell’ultimo dopoguerra, la qualifica di centro finanziario, in rapida ascesa, poi bloccata dalle leggi antiriciclaggio. Come si vede, fattori imprevedibili contribuiscono ai destini e alle relative denominazioni delle città, oggi, impegnate nel conquistare, pure loro quel quarto d’ora di celebrità, facile da raggiungere come da perdere. Lugano, insomma, non è la sola a mettersi in lizza, puntando proprio sulla vocazione turistica. Da rinnovare. Ma come? Secondo commercianti ed esercenti, prolungando gli orari d’apertura, serali e festivi. E «con mercatini di Natale più vicini alle tradizioni». Un argomento che qualche perplessità giustifica.
D’altronde, inventare una qualifica in grado di lanciare una località o una regione sull’affollato mercato delle offerte turistiche è un’operazione rischiosa, esposta non di rado a flop irrimediabili. Succede, in particolare, nell’ambito del titolo di «capitale europea dell’anno per la cultura», attribuito da un’apposita commissione dell’UE, a città, poco note e forse poco attraenti. E che, non di rado, rimangono tali, anche dopo il premio.
Anzi, in certi casi, com’è successo a Maribor, Slovenia, nel 2012: il titolo di capitale della cultura fu contestato, perché imponeva alla città un ruolo superiore alle sue forze, sul piano delle strutture d’accoglienza e anche dei contenuti culturali.
Nel 2018, il titolo spetta a La Valletta, Malta, e nel 2019 a Matera. La città della Lucania spera di ricavarne una nuova immagine, per sostituire quella prodotta da Carlo Levi nel dopoguerra, autore di un libro-denuncia: Cristo si è fermato a Eboli. Vi descriveva le miserie di un Mezzogiorno arretrato. Pagine di ieri, realtà di oggi.