La notte di Capodanno ho iniziato a leggere Mercanti di verità, libro di oltre 900 pagine. È insolito che decida di inoltrarmi in questi tomi. Di sicuro per pigrizia, ma anche per questioni più banali. Come gli spigoli che offendono gli appoggi su braccia o petto, oppure la difficoltà di memorizzare le decine di nomi dei personaggi che si incontrano. Con questo libro poi vado a rilento perché praticamente da inizio anno giornali e web propongono ogni giorno una marea di articoli sull’argomento (editoria, giornalismo) che hanno appannato le attese iniziali desunte da un commento «flash» di Gay Talese poi ritrovato anche sulla retrocopertina del libro: «Scritto benissimo e ricco di ritratti affascinanti, è un saggio importante uscito in un momento cruciale». L’autrice è Jill Abramson, brillante e molto considerata giornalista americana, prima direttrice donna sino a pochi anni fa del «New York Times». Come in altri suoi saggi parla della sua professione, in questo caso della guerra che ormai da diverso tempo coinvolge in tutto il mondo «old versus new media», cioè l’editoria basata sui giornali di carta contro quella che invece sfrutta la rete digitale. Una contesa che la stessa Abramson ha così sintetizzato in una recente intervista: «Internet ha cancellato la necessità delle macchine da stampa. Chiunque poteva pubblicare notizie. Il problema è che questo cambiamento è avvenuto molto rapidamente e le compagnie di giornali sono state lente a capire che Internet ha distrutto quello che era il modello di business dei giornali».
Quando avevo ordinato Mercanti di verità non l’avevo collegato al nostro referendum sull’accettazione del pacchetto di aiuti alla stampa. Invece mi sono trovato con le quasi mille pagine che mi rimandavano di continuo a situazioni e temi della votazione del prossimo fine settimana. Avendo appena oltrepassato la metà del libro, non mi permetto giudizi ma solo un consiglio, rivolto a chi vorrà leggere Mercanti di verità: non saltate l’introduzione dell’edizione italiana, perdereste l’indispensabile calibratura per confrontare la situazione dell’editoria in Europa con quella degli Stati Uniti. La maggiore differenza? Mentre oltre Oceano ormai da decenni si assiste a manovre finanziarie e ad avvenimenti assai più politicizzati e spregiudicati – tanto più ora che, come evidenzia la Abramson, tra i mercanti che recitano ruoli dominanti e globali nell’informazione ci sono anche Google e Facebook –, da noi le preoccupazioni sono ferme all’aspetto imprenditoriale e ci si limita a capire o copiare ciò che sperimentano grandi e piccoli editori americani, ovviamente in scala ridotta. Cercando un’immagine più semplice, i contendenti dell’industria dell’informazione, cioè i nuovi media e i vecchi giornali, potrebbero essere paragonati a due nuotatori che nel mezzo del guado dello stesso fiume reso impetuoso da Internet, sono impegnati a lottare ognuno contro differenti e mutevoli correnti, ma anche pronti a cogliere e ad avviare, se necessario, soluzioni in comune pur di tentare di salvarsi.
Da noi di sicuro – e parlo della Svizzera volendo tornare all’imminente appuntamento con le urne – non c’è ancora una percezione esatta dei pericoli che un acuirsi della crisi dell’editoria potrebbe arrecare all’intera società. E il fatto che siamo fermi ai pacchetti di aiuti indiretti, basati essenzialmente su ristorni per i costi di distribuzione, lo dimostra. Si tamponano le perdite, ma non si curano le cause e nemmeno si prendono in considerazione le insidie che potranno derivare in futuro da un’informazione prevalentemente digitale, eticamente fragile, priva di autorevolezza. Una situazione riassunta in modo chiaro in una recente newsletter de «Il Post» online che parlava degli aiuti alla stampa: ovunque, quindi anche da noi, sarà sempre più necessario «concordare dei criteri per cui questi contributi incentivino e premino un giornalismo di qualità piuttosto che “qualsiasi giornalismo” o persino un giornalismo pessimo, mendace o pericoloso». In altre parole, indipendentemente dall’esito del voto, da domenica sera occorrerà studiare il modo per identificare e premiare solo mercanti in grado di essere, oltre che «oggetti» dell’informazione, anche «soggetti» di certezze e di verità affidate a giornalisti e non ad algoritmi.
Non solo mercanti dell’informazione
/ 07.02.2022
di Ovidio Biffi
di Ovidio Biffi