Non siamo ancora pronti

/ 24.01.2022
di Melania Mazzucco

In un taxi, a Toronto. È il 2005, sono venuta per la promozione della traduzione inglese del mio romanzo Vita. Il mio editore canadese mi ha invitato a partecipare al festival Waterfront. Mi fermo alcuni giorni, faccio la solita vita degli scrittori in tour. Una sera prendo un taxi per andare a cena da J.F., giornalista del «Morning Star» e scrittore (figlio di immigrati italiani, ne ha raccontato l’epopea). Fornisco al taxista l’indirizzo, e lui mi risponde in italiano. Anzi, in fiorentino.

Salendo, gli avevo lanciato un’occhiata distratta: un africano o un canadese di origine africana. Lo guardo meglio. È un giovane sulla trentina, prestante. Gli chiedo come mai parli così bene l’italiano. Ci ho vissuto sei anni, in Italia, dice, scrutandomi nello specchietto retrovisore, quando capita qualcuno che viene da lì gli chiedo di parlare, così posso sentire la lingua. Qui non la parla nessuno. Nemmeno gli italiani, che parlano solo il dialetto del loro paese. E io quello non lo capisco.

Lo chiamerò Issa. Arrivato in Italia dal Senegal a diciotto anni, in aereo, con un visto turistico (allora ancora ottenibile: la tragica rotta del deserto con passaggio in barcone o gommone nel Mediterraneo era in via di sperimentazione), ci era rimasto. Vendeva oggettini di artigianato forniti da grossisti. Elefanti, leoni, parei colorati, borsette, cappelli. Batteva le spiagge della Romagna, trascinando il suo borsone. La mattina prelevavano lui e i suoi compagni con un furgone, la sera tornavano a prenderli. D’estate dormivano in case malconce ma dignitose sperdute nella periferia di località balneari, d’inverno si trasferivano nelle città, dove esponevano la merce sui marciapiedi.

Aveva girato le città d’arte. Era stato a Venezia, Milano, Bologna, Torino, Roma. Ma l’aveva conquistato Firenze. Elegante, signorile, riservata. Aveva deciso di fermarsi. Sempre «clandestino», sempre invisibile. Il suo visto turistico era scaduto. Non aveva avuto possibilità di rinnovarlo o di chiedere un permesso di soggiorno. Né più avrebbe potuto visto che una volta, durante un controllo, scappando era inciampato e l’avevano identificato. Lo avevano espulso. Gli avevano consegnato un pezzo di carta, con su scritto che doveva lasciare l’Italia. Ma uscito dalla questura si era ritrovato libero e solo. Ed era rimasto.

Andava tutto bene. Guadagnava abbastanza da poter mandare soldi in Senegal alla famiglia, aveva amici e presto trovò anche una ragazza fiorentina. Doveva a lei l’accento e la padronanza della lingua di Dante. All’inizio del XXI secolo non aveva nemmeno conosciuto il razzismo feroce che si sarebbe risvegliato nel secondo decennio. Essere nero era ancora un’anomalia, non una colpa. Sognava una casa oltrarno, a Santo Spirito, tra i fiorentini veri.

Ma gli anni passavano e lui continuava a vendere elefanti sui marciapiedi, a fuggire alla vista delle divise, a non esistere. Con la ragazza si era lasciato, e non poteva progettare una vita, un futuro. Lo accettavano, sì, ma solo finché fosse rimasto un simpatico venditore ambulante. Invece lui voleva progredire. E più si italianizzava, più accettava le regole di un mondo richiedente e strutturato, più si rendeva conto di restare fermo. L’Italia intera gli pareva ferma, bella, ma pietrificata come i marmi di Santa Croce. Per questo un giorno, quando aveva saputo che il Canada metteva a disposizione un certo numero di visti per l’ingresso legale, aveva fatto richiesta.

Con un semplice application form. La domanda era stata accolta. Era in Canada da tre anni. Aveva un lavoro regolare, una casa regolare, documenti regolari. Si era sposato e aveva un bimbo. La moglie era del Ghana, l’aveva conosciuta qui. Lavorava in banca, allo sportello, perché era arrivata dieci anni prima e si era diplomata. Qui lui era solo Issa. In Italia un ambulante sulla strada – per sempre. Mi manca, l’Italia. Ma ci tornerò solo per le vacanze. Capisci? Conoscevo bene la sua delusione. Anche io a vent’anni volevo andarmene dal «paese del sonno». Però ero rimasta, e avevo lottato ogni giorno per risvegliarmi, e risvegliare.

J.F. mi aspettava sulla soglia della villetta. Dalle finestre aperte proveniva un odore familiare di sugo. Ho salutato Issa, e mentre lui prendeva dal radio taxi una nuova corsa, mi sono detta che io sono riuscita a restare perché in Italia ci sono nata. L’Italia non era pronta ancora a capire l’energia del sogno di Issa. Sono passati sedici anni dal nostro incontro. E l’Italia non è pronta ancora.