Non si investe nella creatività

/ 28.11.2022
di Aldo Grasso

E se provassimo a investire in creatività? «Quelli che creano sono duri di cuore», diceva Nietzsche. Come al solito, aveva ragione: creare significa «produrre dal nulla», ha la stessa radice di «crescere», e più in generale si riferisce al gesto di far nascere qualcosa di nuovo elaborando in modo originale elementi preesistenti. Si deve ai retori latini l’elaborazione compiuta dell’arte della creatività, dell’arte dell'inventare e delle sue tecniche. Cicerone scrisse un apposito trattato «De inventione», e l’inventio occupa sempre la prima sezione dei manuali latini di retorica. Ma l’invenzione teorizzata dai latini si riferisce prevalentemente alle argomentazioni dei dibattiti giuridici; quindi, è di fatto un’invenzione in tono minore rispetto alla grande arte greca dell’inventare concetti, temi e soluzioni, la hèuresis, che costituì il vanto di Gorgia. È appunto alla scuola di Gorgia che risalgono le prime tecniche volte a stimolare, con appositi accorgimenti, l’invenzione dei concetti.

Se la creatività parte da un modello rischia di non essere originale, se rinunzia a ogni modello rischia di concepire cose ingenue, più spesso rozze o banali. E questo, paradossalmente, è il grande cruccio attuale della nostra cultura pop, mai come ora in cerca di identità e così piena di citazioni del passato. E in molti lavori la creatività diventa sempre più importante: non solo per i profitti di un’azienda ma anche per i lavoratori, perché man mano che le macchine si fanno carico dei compiti più ripetitivi, la creatività sta diventando una qualità fondamentale sul mercato.

Un esempio: il passaggio dall’analogico al digitale – con le sue evidenti conseguenze in termini d’offerta, di frammentazione del consumo, di strategie palinsestuali, di costruzione di reti e brand nuovi – è il più consistente cambiamento che la televisione ha affrontato negli ultimi trent’anni. Quel che emerge è una moltiplicazione dei possibili percorsi che connettono produzione e consumo: la conseguenza più clamorosa è che la televisione (il medium) non contempla più un solo apparecchio di fruizione (il televisore), pur restando quest’ultimo il fulcro delle pratiche di consumo domestico. Di conseguenza, anche il broadcaster ha bisogno di inventare inedite modalità per rafforzare i propri brand, siano essi di prodotto o di rete. Il broadcaster, insomma, è costretto a cambiare pelle: permangono alcune funzioni essenziali (costruire palinsesti, elaborare strategie di marketing, guidare la produzione e l’acquisto di programmi), ma queste devono essere ripensate alla luce di un contesto fortemente cambiato. Tutto questo è possibile senza una buona dose di creatività? O, ancora una volta, le più mirabolanti evoluzioni tecnologiche (nel giornalismo stiamo assistendo al passaggio dal supporto cartaceo a quello elettronico) nolentes trahunt, volentes ducunt? Il destino tecnologico conduce colui che vuole lasciarsi guidare, trascina colui che non vuole?

In questo nuovo scenario, l’industria dei media dovrebbe diventare sempre più una fabbrica di contenuti, che non si identificano con un supporto o con un mezzo, ma che “viaggiano”, in orizzontale, fra le molte piattaforme distributive che la tecnologia rende disponibili (è accaduto ai film e alla musica e, più di recente, a contenuti televisivi come le serie). Solo i contenuti possono creare marche di riconoscimento: il brand diventa così un valore economico perché permette di distinguersi, di riconoscere il prodotto anche su piattaforme diverse, di attirare spettatori e investitori. Obbliga il «produttore» a una qualità costante e solleva, almeno in parte, come un tempo, il «consumatore» dall’ansia della scelta.

Forse la spiegazione più semplice è questa: in questi ultimi anni si è investito molto in tecnologia e poco nel lavoro intellettuale. Siamo di fronte a un imprevisto e sottostimato sviluppo asimmetrico: mentre esplode la magnificenza tecnologica non ci sono persone capaci di sfruttare a pieno questa ricchezza. Non riusciamo più a investire in creatività. Per fronteggiare questa situazione (acuita dalla crisi pandemica, dalla guerra in Ucraina, dal tramonto dell’Occidente), le aziende sono costrette a ragionare sulle priorità; una condizione tipica delle start-up, organizzazioni che hanno l’efficienza e la velocità nel loro DNA, le quali dispongono di risorse limitate, dunque sono abituate a ottimizzare per lavorare massimizzando i risultati. Come diceva Albert Einstein: «La creatività nasce dall’angoscia proprio come il giorno nasce dalla notte buia. È nella crisi che nascono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera una crisi supera sé stesso, restando insuperato».