Non mi avete fatto niente (?)

/ 26.02.2018
di Cesare Poppi

Il sito online della RSI ha dato un certo risalto al Festival di Sanremo, dedicando articoli e commenti all’evento che passa in Mondovisione come una sorta di cartina al tornasole dello stato della cultura diffusa italiana, la stessa che informa in larga misura forme e contenuti di quella kermesse canora. Globalizzata almeno al punto da meritare più di un’attenzione da parte – anche – dei Confederati di lingua italiana d’oltralpe. Bene: l’11 febbraio RSI News ha pubblicato un articolo su quello che è stato definito il «trionfo» della canzone vincente di Meta e Moro «Non mi avete fatto niente». Definita una «canzone impegnata» e un «invito a non aver paura del terrorismo» si sarebbe pertanto differenziata dalla «leggerezza» delle altre canzonette. Al ben vedere dell’Altropologo, ed a saper leggere il testo criticamente, la canzone di Meta e Moro non è affatto una canzone «impegnata» ma il suo contrario speculare: specchio fedele del populismo disimpegnante «di chi si crede assolto» (F. De Andrè) oggi dilagante, tanto più efficace in quanto famoso/fumoso globalmente, opaco – ed in ultima istanza equivoco.

Cominciamo dal ritornello, già diventato da questa parte delle Alpi un tormentone. «Non mi avete fatto niente»: la dichiarazione in prima persona proclama che «A Me, soggetto unico e sovrano della Mia vita, unica della quale Mi importa e verso la quale Io sono Beneficiario Assicurato, la cosa proprio non ha toccato. Ero così prima e sono così dopo». Io, io, io: Io non c’ero, l’ho scansata e la mia vita va avanti così come se non fosse successo nulla».

Lo sberleffo infantile di «quello che l’ha scampata bella» e si chiama fuori dal coinvolgimento col destino comune di legittima paura è ribadito in più punti della canzonetta: «le vostre inutili guerre» (sottotesto: «Io non sono di leva»); «c’è chi si fa la croce / chi prega sui tappeti / gli imam e tutti i preti / ingressi separati della stessa casa» (sottotesto: «siete tutti uguali» – Io non c’entro perché Io vado in Discoteca) per poi ribadire il marameo: «non mi avete fatto niente / non mi avete tolto niente / non avete avuto niente (sottotesto: «da Me»). E poi: «Questa è la Mia vita che va avanti / oltre tutto / oltre la gente» (sottotesto: «per fortuna che io me la sono cavata – e dunque in buona sostanza chissene...»). Equivoco ed opacità dell’assunto che prendono forma con appelli lacrimevoli, premessa e cornice raccapricciante/seducente alla tesi centrale. Corpi («braccia senza mani») dilaniati come sono gli affetti («madri senza figli / figli senza padri») – il tutto condito con facili, trucidi ed ambigui Effetti Speciali da Videogioco: «...sangue nelle fogne [ma quando mai!?]». Per poi ribadire, ritornellando, che: «Io – Io sono fatto di un’altra pasta rispetto a quei miliardi di persone che sperano in qualcosa» – una «speranza in qualcosa». Affermazione indebita ed irridente, se rimane senza definizione. Poiché spazia dal Gratta e Vinci alla vittoria nell’Isola dei Famosi. O – peggio? – alla speranza nella Vita Eterna – «che tanto sono tutti lo stesso e la Cosa comunque non Mi riguarda».

Erano – se l’Altropologo ben ricorda – gli Anni 80 quando il grande storico del ’900 Eric Hobsbawm suonava l’allarme relativo alla one issue politics, «la politica con un obiettivo unico». Si delineava allora una situazione per la quale, abbandonata la pretesa di ampie visioni, progetti e assunzioni di responsabilità collettive (condannate come anacronistiche «ideologie», a corto dei tempi), la «politica» diventava promozione di una ed una sola questione, avulsa da qualsiasi contesto, spettante di diritto a chi ne fosse promotore per il solo fatto di essere Opinionissima del Soggetto Sovrano. Partiti ridotti ad Agenzie Lobbistiche soggette a loro volta al ricatto del Voto dell’Io Sovrano; politiche di medio termine ostaggio di questo o quel Comitato per la Difesa dei Miei Interessi; levate di scudi «dappertutto ma non nel Mio giardino». Si affacciava allora sulla scena globale e globalizzante, per paradosso dialettico, una posizione relativa alla legittimità del «volere/potere» politico sempre più Soggettiva e sempre meno Collettiva – uguale e contraria a quel volere/potere responsabile e collettivo che è oggi il Sogno Perduto della Modernità. Il caveat di Hobsbawm è caduto nel vuoto. Il trend soggettivista di allora si sposta oggi a grandi passi verso la rivendicazione di quell’Autismo Sovrano per il quale il Mio diritto è il diritto del Mondo. IO et mon droit – e il resto può andare alla malora. Sarebbe bello, bello e giusto, in un Mondo dove Kant e Rousseau fossero a memoria e pratica di tutti. Oggi, ahimè, nell’era di Sanremo Docet, la mia libertà non finisce dove comincia quella degli Altri: inizia e finisce esattamente Lì e Lì. Al confine fra Me e Me – (solo che anch’Io oggi non si sento molto bene). 

«Il Mondo si rialza nel sorriso di un bambino» (così Mate e Moro). I bambini di chi?! E i bambini morti ad Aleppo come a Nizza, allora? Il sorriso di Quelli Là, altrove. Che lo consegna a Nuova Vita in un Mondovisione che propaganda le prospettive rassicuranti di una globalclasse medio-borghese che ancora (per poco?) chiude gli occhi in vista dell’impatto sugli standard di vita prossimi venturi. «Non mi avete fatto niente» – ovvero «Io non c’entro niente». Ci sta un rassicurante e miope: «Mamma io sto bene». Miope poiché la prossima volta potrebbe toccare a Noi. O era forse di Mate e Moro Vis retorica? Vis poetica? Il grande T.W. Adorno si interrogava su come fosse possibile scrivere poesie dopo Auschwitz: Primo Levi si è gettato dalla tromba delle scale. E dopo Aleppo!? Orsù, cantiamo canzonette. Come ha ammonito Mara Maionchi, storica produttrice discografica che di canzonette se ne intende: «Andate a dirlo al padre di Valeria Solesin [vittima al Bataclan] che non gli hanno fatto niente» – Bamboli. Così glossa e firma l’Altropologo. Kyrie Eleison.