Nel maggio del 2017, la rivista americana «New York» mise Hillary Clinton in copertina con una domanda: «Io me la cavo piuttosto bene, e voi?». Sono passati tre anni e mezzo e ancora non c’è una risposta: probabilmente Hillary non se la cavava bene, di certo il mondo liberal – e non solo – non si è più ripreso dalla vittoria di Donald Trump alle elezioni del 2016. Nemmeno ora, nemmeno a pochi giorni dal nuovo voto – il 3 novembre. La cosiddetta sindrome del 2016, lo shock per la sconfitta in una partita che pareva vinta a tavolino, è ancora qui, molto forte, e presenta due sintomi chiari.
Il primo è il desiderio di rimozione. Buona parte della campagna elettorale del Partito democratico è stata trainata da un’idea: mettere il trumpismo tra parentesi. Un’anomalia, una stortura frutto di una scelta irrazionale ma, per fortuna, emendabile in quattro anni, un fantasma da acchiappare e rimettere in soffitta ben sigillato: non è successo niente, un piccolo errore, nulla di grave. Mettere Donald Trump tra parentesi significa dimenticare in fretta il pericolo corso, raddrizzare quel che era storto e ricominciare da dove ci si era salutati: con Barack Obama. La tentazione è grandissima ed è stata alimentata dall’ex presidente stesso che con i suoi interventi e la sua presenza (piuttosto ingombrante) ha costruito questa rimozione: possiamo tornare com’eravamo. Il futuro non c’è, ma il futuro è passato di moda. Non c’è nemmeno però – e questo potrebbe essere più grave – la volontà di capire, di comprendere perché c’è stato il trumpismo, che cosa resta di questa stagione spericolata e di continui conflitti, come si curano queste ferite.
Nel 2016 e per molti mesi abbiamo letto molti saggi sociologici per capire chi fossero i trumpiani, come si era creata quella base e quella aspettativa, ci siamo avventurati in analisi sulla rabbia dell’uomo bianco e sull’accerchiamento dell’uomo bianco. Poi piano piano, complice lo stesso Trump che ha svilito e svuotato la presidenza degli Stati Uniti di ogni genere di autorevolezza e credibilità, ci siamo stufati: qui non c’è niente da capire, c’è solo da buttare fuori questo corpo estraneo.
C’è anche un altro aspetto della sindrome del 2016, più pratico e di certo potenzialmente meno pericoloso della tentazione di fare come se il trumpismo fosse stato solo un brutto errore: l’assenza di previsioni. Tutti dicono: dopo l’errore di allora, non diciamo più nulla, vedremo. Certo, vedremo: nel 2016 la stragrande maggioranza dei sondaggisti, analisti, commentatori, persino i passanti dicevano che la vittoria di Hillary era ma-te-ma-ti-ca. Nel 2020 di matematico non c’è più nulla, nemmeno la certezza di poter andare al seggio il 3 novembre vista la seconda ondata di coronavirus in corso, però una cosa si può dire: guardando i sondaggi oggi, un’istantanea che poi buttiamo subito per non creare strane attese, Joe Biden (foto) vince a valanga. La media dei sondaggi dà il candidato democratico oltre il 50 per cento: nella storia recente nessuno, nemmeno Bill Clinton nel 1992, era oltre questa soglia in questo momento della campagna elettorale. Le elezioni si vincono con i collegi elettorali ma ci sono davvero pochi scenari che, con un distacco da Trump che supera gli 8 punti percentuali e un consenso oltre il 50 per cento, prevedono comunque una vittoria di Trump. In Michigan e in Nevada, Biden è tra il 52 e il 46 per cento, in Iowa, dove Trump vinse con nove punti di vantaggio, la corsa è 49 per cento alla pari. Tutti i dati indicano e già da un po’ di tempo che la vittoria di Biden è a valanga. Questo significa che tutte le discussioni istituzional-costituzionali sul caos post voto – con i voti via posta ancora da contare, con il pareggio che dà la possibilità all’inquilino della Casa Bianca di orchestrare e pianificare il periodo di «interregno» prima della nomina ufficiale dei collegi elettorali, con il terrore di quel che viene chiamato «golpe democratico» – sono superflue. Non c’è caos, non c’è conflitto, non c’è Trump barricato dentro la Casa Bianca. C’è una vittoria senza dubbi.
Ma fosse anche solo per scaramanzia, questa cosa la sussurriamo appena. La sindrome del 2016 prevale: nessuna previsione, e per favore svegliateci quando il trumpismo è finito.