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Non chiamiamoli «Generazione Covid»

/ 24.01.2022
di Silvia Vegetti Finzi

Cara Silvia,
vorrei tanto che lei, che studia da anni l’adolescenza, spezzasse una lancia a favore di questi poveri ragazzi e ragazze, la «Generazione Covid», che crescono deprivati delle esperienze più importanti per la loro età: frequentare i coetanei, condividere nuove emozioni, conoscere persone estranee, scambiarsi confidenze, innamorarsi, viaggiare, intrattenere scambi culturali con l’estero e così via.
Il loro mondo si è ristretto a casa e scuola ma non sono più bambini e non so se potranno recuperare il tempo perduto. Quando confronto come crescono i miei figli con la vita che, alla loro età facevamo io e i miei fratelli, mi cadono le braccia. La scuola era il centro della nostra vita, ora è diventata un’appendice, non perché sostituita da un altro centro, ma perché siamo tutti spaesati. Si dice «dopo questa pandemia nulla sarà più come prima», temo che si tratti del peggio, non del meglio. Ma, come lei insegna, non bisogna mai perdere la speranza. Grazie delle sue riflessioni su cui spesso riflettiamo in famiglia. Buon Anno a lei e a tutti gli inquilini della «Stanza del dialogo».
/ Anna Pia

Effettivamente la speranza è «l’ultima Dea» e non ci deve mai abbandonare. Ma, se vogliamo aiutare questi ragazzi e ragazze, non dobbiamo compiangerli troppo. Non chiamiamoli «poveri» e tanto meno «Generazione Covid», una denominazione che li fissa, come sostiene Massimo Recalcati, nella posizione passiva della vittima. È vero che la pandemia ha aggravato le loro difficoltà provocando nuove forme di malessere, come insonnia, inappetenza, fobie e stati d’ansia ma, senza identificarli con le loro ferite, cerchiamo di valutare le loro risorse, le potenzialità dell’età. L’etica della Psicoanalisi insegna che il soggetto è sempre responsabile. Non di quello che gli accade – la diffusione della pandemia non dipende dai ragazzi – ma di ciò che facciamo di quanto ci accade.

La storia insegna che al mondo vi sono stati periodi peggiori di questo e che anche oggi, basta leggere i giornali o ascoltare i notiziari, per renderci conto che, comunque vada, siamo dei privilegiati. Inoltre, nel secolo scorso, le persecuzioni hanno provocato milioni di vittime ma non tutte hanno reagito allo stesso modo. Vi è stato chi, come la senatrice a vita, l’italiana Liliana Segre, ha trasformato il dolore in responsabilità, solidarietà, impegno politico e altre, come il direttore d’orchestra Daniel Oren, in creatività artistica.

Importante in questi frangenti il compito della famiglia e della scuola che possono, attraverso l’educazione, rendere formative anche le esperienze più dolorose. In questo periodo i ragazzi hanno avuto difficoltà a ritrovarsi. L’invito al distanziamento, all’isolamento ha favorito la tentazione dei più fragili e sensibili di evitare la competizione e i conflitti chiudendosi in se stessi. Ma in questo modo non hanno potuto fruire, come lei osserva, dell’interazione, del rispecchiamento reciproco, indispensabili per delineare la propria identità. Anche l’incontro tra ragazzi e ragazze è stato ostacolato dalle mascherine e dalla chiusura dei tradizionali luoghi d’incontro: la discoteca, le mense scolastiche, i bar, le palestre. Pochi si sono messi in coppia, tanti si sono lasciati, molti non hanno ancora avuto un approccio con l’altro sesso. Le statistiche segnalano il calo progressivo dei matrimoni ma il problema è a monte e dovremmo aiutare gli adolescenti e le adolescenti ad affrontarlo senza rinviarlo a data da destinarsi perché ogni esperienza ha il suo periodo critico. Le difficoltà, se riconosciute, aiutano a riflettere, a trasformare l’Io narcisistico dell’infanzia nel Noi della maturità. È evidente che da questa catastrofe non ci si salva da soli: un problema di tutti richiede l’impegno di tutti. Quando diciamo «Dopo questa emergenza nulla sarà più come prima» non formuliamo una constatazione ma un augurio. Non è automatico, come lei sostiene, uscirne migliori o peggiori, dipende da noi.