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«Non capisco mio figlio»

/ 27.01.2020
di Silvia Vegetti Finzi

Gentile Signora Vegetti Finzi,
sono mamma di due bambini: una femmina di 9 anni e un maschio di 10 anni e mezzo; e molto spesso non capisco il comportamento di mio figlio. Mi provoca spesso e rompe regolarmente degli oggetti per farmi arrabbiare. Contrariamente a quello che dice il suo maestro di scuola: «lui è brillante e molto sveglio», io ho l’impressione a volte che si comporti come un bambino piccolo. Cerca in tutti modi la mia attenzione. Ogni tanto mi dice anche delle parole che mi feriscono e quando gli dico che sono offesa e triste, mi risponde con un mezzo sorriso che scherzava. So anche che è un bambino molto sensibile ma che non esprime niente verbalmente come suo papà e la sua famiglia. È anche tanto geloso della sorella soprattutto se lei mi dimostra affetto; quello che lui non si permette e mi respinge se lo voglio abbracciare o baciare, a parte la sera quando siamo solo noi due nella sua camera prima di addormentarsi. 
Mi chiedo da tempo se il fatto di avere avuto un cancro con delle cure molto pesanti quando lui aveva appena più di 2 anni e sua sorella 8 mesi, lo abbia inconsciamente scombussolato.

Non so se è utile aggiungere che il loro papà è stato poco presente per loro fino all’anno scorso quando ho chiesto la separazione, stanca di sentirmi sola e abbandonata, avendo dedicato i suoi interessi e il suo tempo al lavoro per, secondo me, cercare di sfuggire i problemi della vita di famiglia.
Vedo bene che mio figlio non vive serenamente; è spesso nervoso, impaziente, vuole sempre comandare in casa e l’arrivo dell’adolescenza mi spaventa. È da diversi anni che cerco di capire l’origine del suo disagio. Se mi aiutasse a capirlo o mi potesse dire cosa lo potrebbe aiutare, le sarei molto grata. / Valeria

Cara Valeria,
suo figlio, che chiameremo Carlo, ha già vissuto, nei suoi primi dieci anni, non pochi traumi: la nascita della sorellina, la malattia della mamma, la separazione familiare. Consideri che ai bambini, anche se piccolissimi, non sfugge niente. Hanno antenne finissime per cogliere tutte le vibrazioni emotive ed esserne coinvolti.

Per il primogenito, la nascita di un fratellino o di una sorellina significa perdere improvvisamente il privilegio dell’unicità, sentirsi detronizzato dall’ultimo venuto. Una frustrazione che suscita sentimenti d’invidia e ostilità, anche se l’educazione impone di far buon viso a cattivo gioco. Per giunta, all’età di due anni ha dovuto affrontare un’altra difficile prova: la grave malattia della mamma. Per Carlo, ancora psicologicamente all’unisono con lei, ha voluto dire provare la più grave angoscia: il rischio di essere abbandonato, di restare solo. Tutto questo, mi sembra di capire, senza che il padre fosse in grado di confortarlo stringendolo in un abbraccio forte e rassicurante. Il timore dell’abbandono si è poi realizzato quando vi siete separati e suo marito se n’è andato di casa definitivamente. In questi frangenti i figli temono che, così come hanno perso un genitore, possono perdere anche l’altro. Una convinzione infantile che riattiva tutte le angosce precedenti e che accade, per Carlo, proprio nel momento della preadolescenza, quando dovrebbe accingersi a spiccare emotivamente il volo da una casa che resta solidamente ancorata alle sue fondamenta, sempre pronta ad accoglierlo in caso di pericolo.

Se consideriamo la famiglia come una scacchiera, dove ogni pezzo ha la sua posizione, appare evidente come il venir meno di una pedina modifichi tutto il sistema. In particolare, l’uscita di scena del padre provoca nel figlio, che trova in lui il suo referente, un senso di spaesamento, di smarrimento. Quando il padre non viene considerato tale dalla madre, il bambino tende a prenderne il posto, a sostituirlo realmente o fantasticamente, nel letto matrimoniale. Ma la realizzazione di questo desiderio inconscio si rivela una trappola perché gli impedisce di affrontare il compito della sua età: rendersi indipendente, diventare grande, realizzare se stesso. Carlo è irrequieto, instabile e aggressivo perché non sa quale sia il suo posto in famiglia. Ed è su questo che vuole richiamare la sua attenzione: aggredendola chiede ascolto, comprensione, partecipazione. Nei momenti di intimità trovi le parole per dirgli che lo avete desiderato, che la sua nascita è stata una benedizione e che il papà lo ama, nonostante trovi difficile dimostrarlo. Non a caso i problemi scompaiono in classe, dove il maestro incarna la figura paterna, quella che con la sua presenza autorevole indica al ragazzino che cosa deve fare, come dev’essere, a chi deve somigliare.

A questo punto non dovrei andare oltre perché lei mi domanda d’individuare le cause del malessere di suo figlio, non di darle suggerimenti. Eppure non posso trattenermi dall’invitarla a recuperare, per quanto possibile, il ruolo paterno di suo marito. Anche quando si cessa di essere marito e moglie si resta infatti genitori per sempre. Per condividere infine una riflessione che le fa onore, mi permetto di suggerirle la lettura di un libro, appena ristampato, dove raccolgo e commento le testimonianze di figli di genitori separati, i meno ascoltati: Quando i genitori si dividono: le emozioni dei figli, Oscar Mondadori.