Nomi

/ 26.07.2021
di Bruno Gambarotta

Commentando la pietosa morte di Maradona, qualcuno ha ricordato che negli anni della sua massima popolarità un gran numero di genitori chiamarono Diego i figli neonati. Non è un fenomeno recente, esiste da quando è venuta meno la consuetudine di dare ai figli un nome che ricordi quello di uno dei nonni, di uno zio morto giovane o del padrino di battesimo. Ancora prima, nel tempo in cui il 50% dei bambini moriva nei primi tre anni di vita, all’ultimo venuto si dava il nome di un fratello o di una sorella morti in fasce, illudendosi di farli rinascere. Il mutamento di costume non è stato immediato, c’è stato un periodo di lento cambiamento, nel quale io mi sono trovato a nascere, nel 1937.

Prima dei vent’anni sono stato un’accanito giocatore di bigliardo, ricordo che una sera mi sono trovato attorno a un tavolo verde con altri cinque coetanei e tutti avevamo lo stesso nome di battesimo, Bruno. Era il nome del terzogenito di Benito Mussolini, aviatore, morto a 23 anni il 7 agosto 1941 durante un collaudo. I miei genitori hanno sempre negato di essersi ispirati al figlio del duce. A quel Bruno hanno fatto seguire Dante, fratello di mia madre e padrino di battesimo, Francesco, nonno paterno e buon ultimo Domenico, nonno materno. Il fenomeno è dilagato: ultimo esempio, il fiorire di tanti neonati chiamati Leone, come il figlio di Chiara Ferragni e di Fedez.

Nei lontani anni 70, ragionando su questo tema, Vittorio Sermonti aveva avuto l’idea per un varietà televisivo e l’aveva proposto, per tramite mio, alla direzione programmi della Rai. Lavorando in coppia, abbiamo messo a punto ogni dettaglio, come radunare in studio per ogni puntata due gruppi di ospiti, uno maschile e l’altro femminile, accomunati solo dal fatto di avere lo stesso nome di battesimo e farli interagire. Si trattava di sfruttare i ritorni ciclici.

Per esempio, nel dopoguerra con l’arrivo dei film americani e grazie alla popolarità di Rita Hayworth, molti genitori avevano dato il suo nome alle figlie, compresa quella nata nel 1945 nella famiglia dell’operaio torinese della Fiat, il signor Pavone. 18 anni dopo, con la vittoria al festival degli sconosciuti di Ariccia esplode il fenomeno della giovanissima cantante generando la seconda ondata di Rite. Il progetto prevedeva di radunare nello studio e contrapporre le Rite della prima ondata a quelle della seconda.

Per il conduttore non avevamo dubbi, l’ideale sarebbe stato Paolo Poli. È stata sufficiente una semplice telefonata per avere non solo il suo assenso ad accoppiare il suo nome al progetto ma anche trovarlo entusiasta dell’idea. Arrivati a questo punto si trattava di ottenere disco verde dai sommi capi. La prima porta alla quale abbiamo bussato è stata quella di Pier Emilio Gennarini, vice direttore programmi di Rai Uno. Alternandoci nell’esposizione del progetto, all’inizio abbiamo ottenuto una benevola attenzione dal nostro interlocutore. Sembrava fatta, finché, al nome del conduttore, si sono induriti i tratti del volto ed è scattata un ripulsa senza possibilità di appello.

Cos’era successo? Sapevamo tutti noi, suoi collaboratori, che Gennarini era un cattolico integerrimo che metteva in pratica gli insegnamenti del Vangelo. Si diceva che grazie a uno stile di vita ascetico, versasse in beneficenza gran parte del suo stipendio. Senza chiedere lumi e attirato solo dal titolo era andato una sera al teatro Alberico di Roma a vedere uno spettacolo di Paolo Poli, dedicato a Santa Rita, che non era esattamente di carattere agiografico. Paolo, vestito da suora, era il protagonista. La santa, morendo, veniva issata verso l’alto mentre le consorelle l’imploravano: «Rita, quando sarai in paradiso, ricordati di noi!» E lei, sdegnata, guardandole: «Non sono fisionomista!».

Fallito l’approccio con Gennarini, Vittorio ed io abbiamo tentato una prova d’appello chiedendo udienza a Giovanni Salvi, il capo complesso da cui dipendeva anche il settore varietà e rivista. Nonostante le numerose telefonate ricevute interrompessero di continuo la nostra esposizione, siamo riusciti a incuriosire il grande capo, tanto da indurlo a chiederci degli esempi concreti del fenomeno che il programma si proponeva di mettere alla berlina. Parla Vittorio: radio, giornali, rotocalchi e cinegiornali (la tivù ancora non c’era) hanno dato enorme rilievo al matrimonio fra Tyrone Power e Linda Christian celebrato a Roma il 27 gennaio 1949 nella chiesa di Santa Francesca Romana.

Da quel giorno e per un bel po’ di mesi non si contano le neonate chiamate con quel nome. Un’ombra di stizza trascorre sul viso del dottor Salvi che c’informa, gelido: «Sappiate che se mia moglie e io abbiamo chiamato nostra figlia Francesca Romana, l’abbiamo fatto perché ci piaceva quel nome e non per seguire una moda». Ecco la storia di un progetto morto prima di nascere e, secondo me, ancora valido. Purtroppo Paolo Poli e Vittorio Sermonti (che chiamò i suoi figli Maria e Pietro) non sono più tra noi.