Una mattina di fine agosto, sulla tortuosa strada del Tusheti, nella Georgia nordorientale, la jeep avanza circondata da una nebbia impenetrabile. Dal viaggio di andata, ricordo che la strada non ha parapetti né barriere e corre sul ciglio della montagna, le curve sono brusche e i tornanti verticali. Nello strapiombo, carcasse di veicoli arrugginiti. Una strada impervia ed epica: l’unica che – attraverso il passo Abano – collega il Tusheti al fondovalle e al resto del paese: la regione è come un’isola, circondata dalle cime del Caucaso Maggiore, che formano il confine della nazione.
L’autista, il volto celato da un berretto di lana fatto a mano, con motivi fantastici, guida alla cieca con sicurezza, mantenendo una velocità sostenuta. Deve ricondurre a valle gli escursionisti sparsi tra i sentieri del Tusheti: le previsioni annunciano neve, il passo sarà chiuso e la circolazione interrotta fino all’estate prossima. Una frenata brusca ci proietta contro i sedili anteriori. «D** can!» bestemmia l’autista, con credibile accento veneto. Il resto del viaggio lo trascorriamo senza pensare più alla strada, alla nebbia e al burrone: Beso ci racconta la storia di sua madre.
Nino è nata in una famiglia di pastori, in uno dei dieci villaggi medievali del Tusheti. Si trova a suo agio solo negli spazi aperti. Col marito, operaio a valle, è rimasta insieme giusto il tempo di fare due figli. Soldi sempre meno, unica prospettiva emigrare in qualche città. Nel 1996 una cugina di Telavi – svanita in Italia da anni – le propone un lavoro perfetto: vitto, alloggio e stipendio. Nino ha quarant’anni e non conosce altro che le sue montagne. Affida i figli alla sorella – il grande ha dieci anni, il piccolo, Bezo, sei – e parte. Diventa la badante di un’anziana con l’Alzheimer. Ha una stanza col bagno privato, ma intristisce nel condominio di pianura, in una cittadina in provincia di Venezia. La presenza di altre connazionali che l’hanno preceduta le rende meno aspra la solitudine. Rinuncia subito al suo nome, perché non sa spiegare che Nino, al suo paese, è un nome femminile. Diventa Nina. Parla georgiano e russo, perché l’ha studiato a scuola. Il figlio della signora inglese, la signora solo veneto. Nino accudiva pecore e cavalli, sa fare il formaggio e lavorare a maglia la lana, ma non ha esperienza di infermiera, non può leggere nemmeno i bugiardini delle medicine. Tuttavia è una donna ingegnosa, efficiente e ricca di fantasia: si organizza e riesce nell’impresa di assistere la sua datrice di lavoro meglio di quante l’hanno preceduta. La signora crede che Nino sia sua madre. Nino in verità bada a lei come alla figlia che non ha avuto – la cambia, la lava, la pettina, la sorregge: ma la strana famiglia tutta mentale che hanno creato funziona.
Vivono insieme per sei anni. Nino ci pensa giorno e notte, ma non torna mai nel Tusheti. La signora si spegne fra le sue braccia sussurrando «mamma mamma». Il giorno stesso del funerale Nino riceve tre offerte di lavoro, e può permettersi di scegliere la migliore. Resta in Veneto altri tredici anni, cambiando sei signore. Le accompagna nel declino, nel dolore, talvolta nella disperazione – tutte alla morte. Con le rimesse, il primo figlio studia, e diventa proprietario di una ditta di trasporti ad Akhmeta. Bezo invece è come lei: ama solo le montagne. Dai dieci anni, trascorre l’estate in Italia, dove pure Nino ha scoperto di avere diritto alle ferie. Quando incontra la madre non la riconosce: non esistevano ancora le videochiamate. Ma dopo due settimane con lei vorrebbe restare. Il lavoro di Nino non le permette di tenerlo con sé. Quando muore la settima signora, Nino rifiuta tutte le offerte e ritorna. Restaura la casa di legno e pietra nel villaggio dei suoi, l’ultimo prima del baluardo di quasi quattromila metri che fa da confine col Daghestan. Raccoglie arnesi tradizionali, mobili, manufatti di artigianato. Ricomincia a fare la maglia e vende ai viaggiatori che si spingono fin lì calze di lana, cappelli e manopole. Quelle che ho addosso le ho comprate da lei: vi ha intrecciato gli stessi motivi che Bezo porta sul berretto.
Era la donna col volto di pietra seduta sulla panca di legno, Nino. Non mi ha detto di conoscere l’italiano, gli faccio notare. L’ha fatto per te, ride Bezo. In Italia stava solo con persone che devono morire. Non vuole ricordarsi. È una donna piena di gioia. Ma sono io che devo ricordarmi di lei. Per sette italiane è stata un messaggero – l’angelo della soglia. Non ha raccontato a nessuna del suo mondo, di sé.