Nel linguaggio corrente, a uso globale, è entrato, da qualche mese , un neologismo che va forte, ovviamente anglosassone: è «Flight Shame», nato però in Svezia, e diffuso su scala mondiale da Greta Thunberg, attivista sedicenne, impegnata a salvare il nostro malandato pianeta. E, per farlo, ha dato personalmente il buon esempio: è arrivata al summit di Davos, dopo 17 ore di treno, rifiutando l’aereo che, da Stoccolma a Zurigo, impiega poco più di un paio d’ore. La mossa era, in pari tempo, simbolica e abile: una disarmante sedicenne contrapposta agli arroganti potenti della politica e dell’economia. Insomma, da che parte stare? Domanda retorica. Gli effetti erano scontati. Quindi, non hanno sorpreso, più di tanto, le piazze piene di ragazzi che inneggiavano all’aria pulita e a città più verdi, aspirazioni legittime anche se vaghe.
Ora l’episodio Greta, che poteva sembrare soltanto folcloristico e circoscritto ai giovanissimi, sta avendo anche conseguenze inattese e persistenti, su piani allargati. A cominciare da quello politico, dove ha risvegliato una sensibilità ambientale che si traduce in voti verdi. Ma è soprattutto su quello della nostra quotidianità che si registrano gli effetti più sconvolgenti. L’urto di quest’onda verde ha, infatti, investito il bastione di abitudini e comportamenti, ormai consolidati, che appartengono all’«homo turisticus»: figura in cui tutti quanti, sia pure a gradi diversi, dobbiamo identificarci, godendone i vantaggi. Fra i quali, la possibilità di partire verso lontane e svariate destinazioni, rese accessibili grazie a voli d’ogni tipo e prezzo, proposti da compagnie di bandiera e da società private, in stretta concorrenza. In altre parole, il distante, lo sconosciuto, l’esotico sono a portata di mano, quasi banalizzati dalla facilità del viaggio. Tanto da creare, come succede nei confronti di ogni conquista tecnologica, una dipendenza: quando cioè il piacere diventa bisogno e mania. Un rischio che non correremo più? La domanda è attuale.
Infatti, su questo stile di vita incombe, adesso, il «Flight Shame», la vergogna di volare, che, per intenderci, non ha niente da spartire con la paura di volare, malattia ormai rara. Non si tratta più di una modesta preoccupazione, di tipo fisico e individuale, qual è salvare la propria pelle da un eventuale incidente. Il nuovo rifiuto di salire a bordo di un velivolo fa capo a un disagio d’ordine morale e collettivo: la consapevolezza che, volando magari per divertimento, si mettono in pericolo le sorti del mondo e il futuro delle nuove generazioni. Tutto ciò per via delle emissioni di CO2.
Per il momento, a compiere questa scelta, e a esibirla nei media, sono le avanguardie che contano. Un po’ come avvenne nel ’68, prendono la parola scrittori, campioni sportivi, artisti, docenti universitari. Alcuni, come Niko Paech, economista all’università di Siegen che, sulla NZZ, illustrava un piano di vita all’insegna di rinunce da affrontare col sorriso. Perché aprono la via verso la felicità: raggiungibile camminando con scarpe vecchie più volte risuolate, abbassando le luci in casa, mangiando verdure, usando l’agenda dell’anno prima (basta ritoccare le date). E naturalmente elettrodomestici ridotti al minimo e possibilmente condivisi con i vicini, niente auto e figurarsi l’aereo. L’ha preso una volta sola, in un caso di urgenza familiare. Sin qui, perché no? Questo professore, come altri, fra cui il campione olimpionico Björn Ferry, sono liberi di vivere all’insegna del poco piuttosto che del troppo. Il guaio è che questi loro personalissimi sfizi sono proposti alla stregua di soluzioni salvifiche, vagamente religiose. In definitiva ricompare il mantra della «decrescita felice», che ispira il partito del «vaff…», a noi ben noto. E si precipita così in uno stato confusionario che, in nome dei massimi sistemi, condanna conquiste sociali ed economiche legate, in particolare all’uso dell’aereo. Una censura che, però, ignora un fattore non trascurabile, il tempo che passa. Arriva con quasi mezzo secolo di ritardo: quando a salire a bordo sono sempre più famiglie numerose, giovani giramondo, gruppi aziendali, salariati. La gente qualsiasi, insomma, che appartiene a un grande e diversificato ceto medio, che ha strappato un privilegio, un tempo riservato al «jetset». Come dire che anche la scelta virtuosa del «Flight Shame» ha un rovescio della medaglia.