A fine maggio il Consiglio federale, oltre ad alleggerire le misure anti-pandemia, ha posto fine anche all’obbligatorietà legata al telelavoro. Introdotta lo scorso 18 gennaio essa imponeva alle aziende di fare ricorso al telelavoro quando «per la natura dell’attività ciò sia possibile e attuabile senza un onere sproporzionato». Come d’abitudine la fine di questo obbligo è stata annunciata seguendo il modello pragmatico, cioè senza commenti o dettagli. Nel dispositivo si legge solo che «l’obbligo del telelavoro sarà tramutato in una raccomandazione per le imprese che effettuano test regolari», che «non appena tutte le persone che lo desiderano saranno state vaccinate (inizio della fase di normalizzazione), la regola del telelavoro sarà allentata senza condizioni», mentre «la protezione delle persone particolarmente a rischio sul posto di lavoro sarà prorogata». Come sempre il Consiglio federale parla in modo generico di telelavoro, quindi non si cura delle varie sfaccettature che già oggi si presentano in questo segmento dell’occupazione, così come delle caratteristiche legate alle libertà del lavoratore, oppure di doveri e controlli che il datore di lavoro impone. Seguo lo stesso sentiero raggruppando i diversi modelli, compreso lo «smartworking» che in definitiva è solo un’evoluzione del telelavoro resa possibile dall’evoluzione e dalla diffusione delle connessioni digitali.
Imposta dalle restrizioni pandemiche, l’accelerazione del lavoro a distanza (da casa, ma non solo) è stata vissuta un po’ ovunque come una necessità, dopo che i media l’avevano indicata come una grande (epocale, ha scritto qualcuno) opportunità per «svecchiare» certi settori del terziario e superare lo stallo pre-pandemico dell’economia. La fine dell’obbligatorietà decisa ora dal Consiglio federale conferma però che, a meno di clamorosi ripensamenti, o di nuovi sviluppi legati alla congiuntura, il ricorso al telelavoro non susciterà cambiamenti radicali e immediati. Quindi – anche se un’aggiunta dell’ordinanza precisa che i test di studio avviati nelle imprese continueranno anche dopo l’abolizione dell’obbligo e come pure la copertura da parte della Confederazione dei costi per l’aggregazione e l’analisi dei campioni raccolti e da esaminare – il cambiamento verosimilmente proseguirà ora secondo l’usuale modello «svizzero»: privilegiando le scelte politiche piuttosto che le spinte dell’urgenza o della tecnica; in altre parole privilegiando il buon senso e vagliando gli interessi dei datori di lavoro e dei dipendenti più che rincorrendo le conquiste delle connessioni digitali o le speranze che esse suscitano.
È quanto suggeriscono svariati motivi, essenzialmente legati ai limiti imposti dalla sicurezza e alla necessità di garantire un mantenimento dei posti di lavoro, ma confermati anche da effetti collaterali sinora trascurati: le difficoltà delle imprese obbligate dal telelavoro a migrare in strutture senza uffici, la necessità di rivedere (oltretutto in piena crisi congiunturale) la schematizzazione dei concetti legati alle politiche aziendali sinora seguite, ma soprattutto gli effetti negativi, con ripercussioni su diritti e salute dei dipendenti e dei loro famigliari, venuti a galla in questi mesi di pandemia.
Solitamente quando si parla di telelavoro si pensa subito ai benefici per lavoratori che potranno approdare a un maggiore equilibrio tra vita personale e lavoro e, sull’altro fronte, ai costi minori dei datori di lavoro che invece potranno beneficiare di una forte diminuzione dei dipendenti presenti fisicamente in ufficio. Ma è una visione poco realistica o perlomeno da rivedere. Il singolo impiegato potrà sì gestire il tempo in maniera più efficiente, visto che risparmierà ore di viaggio e spese per raggiungere il posto di lavoro, miglioramenti che potranno essere sfruttati per uno stile di vita più comodo con effetti positivi sull’umore, con maggior tempo libero e per la famiglia, come pure per una migliore, se non maggiore, produttività. Inoltre, di norma è il datore di lavoro a dettare il «modus operandi» del lavoro a distanza: la mancanza di una corretta organizzazione del telelavoro aziendale potrebbe facilmente favorire stress e demotivazione nei dipendenti, fino allo scenario peggiore del burnout lavorativo.
C’è poi il pericolo che, senza adeguati canali di comunicazione, tutti i dipendenti incontrino difficoltà a sentirsi e a rimanere parte dell’azienda, quindi che il singolo impiegato avverta spinte verso l’isolamento e la precarietà. Ed è soprattutto alla luce di questi riscontri che la grande marcia del telelavoro sta subendo un rallentamento: negli scorsi giorni anche Google e Apple, due giganti delle New Tech fra i più decisi un anno fa a promuovere lo «homeworking», hanno annunciato che dal primo settembre i loro dipendenti dovranno tornare in ufficio per almeno tre giorni alla settimana. In casa nostra invece Swisscom, che ha l’85% dei collaboratori abilitati a lavorare in modalità «smartworking» (anche perché quando qualcosa non va non devono digitare numeri telefonici astronomici...), ha dichiarato che in futuro punterà su un mix tra lavoro in azienda e telelavoro. Insomma: il «Take it easy» prevale ancora.
Nessuna fretta per il telelavoro
/ 14.06.2021
di Ovidio Biffi
di Ovidio Biffi