Cari lettori della «Stanza del dialogo», per anni ci siamo incontrati sulle pagine di questo giornale come fosse un luogo reale e, senza conoscerci di persona, abbiamo condiviso gioie e dolori, delusioni e speranze. Mai avrei immaginato che comunicare a distanza sarebbe diventato il modo più diffuso di stare insieme, parlare, ascoltare, approvare e discutere. Ma un’improvvisa, destabilizzante pandemia ha travolto come una bufera il modo consueto di organizzare il presente e progettare il futuro. Colti di sorpresa, la nostra prima reazione è stata di ignorarla e successivamente, di fronte alla sua inesorabile espansione, di considerarla un danno irreparabile. Ora si pone il compito più difficile: trasformarla in una risorsa. Non sarà facile perché stiamo affrontando un comando contraddittorio: state distanti nello spazio esterno del lavoro, dei trasporti, del tempo libero e state vicinissimi nello spazio interno, nella casa e nella famiglia. Due opposte modalità di convivenza che, sperimentali in questo periodo di emergenza, cambieranno anche il dopo. L’importante è approfittare di questa sosta forzata per riflettere e prospettare altri possibili stili di vita. In proposito la poetessa Mariangela Gualtieri ci aiuta ad assumere innanzitutto le nostre responsabilità.
Nove marzo duemilaventi
Questo ti voglio dire
ci dovevamo fermare.
Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti
ch’era troppo furioso
il nostro fare. Stare dentro le cose.
Tutti fuori di noi.
Agitare ogni ora – farla fruttare.
Ci dovevamo fermare
e non ci riuscivamo.
Andava fatto insieme.
Rallentare la corsa.
Ma non ci riuscivamo.
Non c’era sforzo umano
che ci potesse bloccare.
Non per batterci il petto ma per imparare dall’esperienza e utilizzare le risorse della resilienza. Un termine diventato ormai abituale ma non per questo veramente compreso. Usato nella Fisica dei metalli, indica la capacità di riprendere, dopo un urto deformante, la forma iniziale. Noi l’urto l’abbiamo ricevuto di certo ma non credo che riprenderemo mai la forma iniziale perché tutto quello che accade ci modifica, nulla viene dimenticato. Si tratta piuttosto di diventare migliori. Non dopo, ma subito.
Oggi propongo di partire dai più piccoli, dai bambini. Non perché siano più deboli e fragili ma piuttosto perché sono i più tosti. Dotati di una mente plastica e curiosa, programmati per conoscere e fare , disposti a sbagliare e ricominciare, possono funzionare da battistrada , insegnarci come si fa a risollevarsi dopo una caduta con qualche livido ma più vispi di prima. La lettera precedente («Azione» n.11) si concludeva con un invito a ragionare senza lasciarci travolgere dall’ansia, un’apprensione vaga e diffusa, ammettendo invece la paura di una minaccia determinata, in questo caso il virus contrassegnato da una targa prestigiosa: Covid-19.
Che cosa ne pensano in proposito i bambini? Più svelti di noi, utilizzando carta e pennarelli, se lo sono già raffigurato come una palla scura dotata di mille aculei, un porcospino malvagio. Ma non si sono fermati lì, lo hanno anche raccontato in una storia a lieto fine: l’arrivo di altri rassicuranti mostriciattoli che, schierati come l’esercito nordista dei film western, al grido «Arrivano i nostri» sconfiggono il nemico. La trama è risaputa ma ogni bambino la disegna e racconta a modo suo. In questo modo riesce da solo a trasformare l’ansia fluttuante in un avversario che, una volta identificato, può essere combattuto e vinto. Come? Unendo le forze, mettendoci insieme, restando compatti, solidali e obbedienti come un esercito motivato ed efficiente. Proprio quello che, in questi frangenti, dovremmo fare noi adulti, ma che non sempre ci riusciamo per noia, pigrizia, insofferenza, incapacità di pensare l’impensato.
Sono allora i bambini a insegnarcelo utilizzando la grande risorsa della fantasia, una forma di pensiero che trova spiragli di libertà anche nella fortezza più serrata. Perciò quando vostro figlio o nipotino vi chiederà «Cos’è il coronavirus ?» Rispondetegli «tu che ne dici?» e statelo ad ascoltare. Anche da loro c’è tanto da imparare.