Nella nebbia della guerra

/ 28.03.2022
di Peter Schiesser

Niente di nuovo sul fronte orientale. La guerra continua, con il suo impatto devastante a cerchi concentrici. Si uccide, si distrugge, si fugge. E siccome l’esercito russo avanza di poco e solo a est, mentre attorno a Kiev arretra, distrugge ancora di più con missili e bombe, uccidendo e terrorizzando la popolazione. In realtà non si capisce che cosa sta succedendo: perché l’aviazione russa non ha il controllo dei cieli nonostante la superiorità assoluta? Perché aviazione, marina, truppe di terra sembrano condurre ognuno la propria guerra, tuttora senza coordinarsi? Dove sono finiti il ministro della difesa Sergei Shoigu e il capo dell’esercito Walery Gerassimov, spariti dall’11 marzo (precedentemente Shoigu era tutti giorni al telegiornale)? Chi sta guidando una guerra che ha colto impreparati anche i livelli superiori dell’esercito (Putin aveva condiviso la decisione solo con pochissimi intimi)? Si sente solo l’enorme rabbia dello zar, che brandisce le armi estreme: chimiche, batteriologiche, atomiche.

Molto di nuovo sul fronte occidentale, per contro. Ricordate il disprezzo dell’America di Trump per la Nato, che pure il presidente francese Macron aveva dichiarato trovarsi in stato di morte cerebrale? Era il 7 novembre 2019. Oggi la Nato dimostra un’unanimità di intenti e una volontà di contrapporsi alla Russia impensabile fino a pochi mesi fa. Sotto la guida di un’America diversa, sta agendo saggiamente, preparandosi al peggio ma evitando di provocare un’ulteriore escalation militare, che porterebbe diritti ad una terza guerra mondiale. Con la sua decennale esperienza in politica estera, Biden in questo momento è il presidente più adatto a gestire una crisi del genere: fermo e deciso nell’imporre sempre nuove sanzioni, alle quali tutto l’Occidente si è allineato, nel dettare la strategia della Nato, nel sostenere misuratamente l’esercito ucraino. E poi, di nuovo in Occidente c’è una mai vista ondata di solidarietà verso i profughi. Perché nelle madri e nei figli, negli anziani ucraini in fuga noi ci riconosciamo – ma soprattutto perché ci rendiamo conto che questa, in Europa, è la nostra guerra. Quando un giorno finirà, sarebbe bello se si facesse tesoro della consapevolezza delle tragedie che comporta qualsiasi guerra e si adeguassero le politiche d’asilo europee, poiché umanamente nulla distingue gli ucraini dagli afgani e dai siriani.

Lo sappiamo, quando la guerra finirà ci saranno molte ferite e macerie. Bisognerà ricostruire l’Ucraina, ricreare le condizioni per un funzionamento normale dell’economia mondiale, reintegrare la Russia in un sistema di sicurezza europeo. Ci vorranno anni, nella migliore delle ipotesi. Ma in realtà oggi non sappiamo neppure quali altre devastazioni ci aspettano, in Ucraina e altrove, possiamo leggere solo i primi segnali che arrivano. Che mostrano quanto vasto è l’impatto di questa guerra sul mondo intero. La decisione di Putin di vendere gas e petrolio solo in rubli pone l’Europa di fronte al rischio di dover rinunciare all’irrinunciabile (per funzionare normalmente) o di contravvenire alle proprie sanzioni. Nel resto del mondo la decisione russa di non esportare grano e l’impossibilità dell’Ucraina di produrlo nelle consuete quantità (gli agricoltori non hanno carburante, che serve all’esercito) crea un forte rischio di carestie. Il 30 per cento del grano mondiale è prodotto da Russia e Ucraina, 400 milioni di persone nei paesi arabi dipendono interamente dal loro grano. Contestualmente, in Cina andrà perso un terzo del raccolto di grano a causa di siccità e inondazioni provocati dai cambiamenti climatici, se ne dovrà quindi comprare di più altrove, mettendo ulteriormente sotto pressione i mercati. Una carenza mondiale di grano (e quindi di pane) innescherebbe delle rivolte popolari, destabilizzando altri paesi. Inoltre, Russia e Bielorussia sono importanti esportatori di fertilizzanti: la prima non può venderli, la seconda riduce la produzione a causa degli alti costi del gas naturale (componente essenziale), i raccolti mondiali saranno di conseguenza meno abbondanti. La possente macchina dell’economia globalizzata si era già inceppata con la pandemia, ora deve ridefinire i suoi confini (senza la Russia) e le sue catene di approvvigionamento. Nel frattempo il mondo tremerà e soffrirà come non mai, negli ultimi decenni.