Susch: adagiato letargico sulle rive dell’En, ai piedi del passo della Flüela e vicino al tunnel della Vereina, duecentodiciannove abitanti. Poco sole in inverno, molta neve, parecchi larici, un hotel garni, una clinica per il burnout alla confluenza dell’En con il torrente Susasca. E dal due gennaio dell’anno scorso, un museo d’arte con la zeta. Battezzato con semplicità grazie al guizzante toponimo, è l’unico esile indizio che porta alla sua fondatrice: Grażyna Kulczyk. Miliardaria polacca collezionista d’arte moderna con caschetto biondo e la passione per i vestiti in pelle nera. Ricavato dai resti di un monastero del 1157 e da un birrificio ottocentesco chiuso da più di ottant’anni, il primo pregio è il mimetismo.
Dalla stazioncina di Susch, si vede solo se guardate dove dovete, accanto all’algida chiesa di San Jon e la torre Planta con cupola a cipolla. Bianco neve, ballatoi in legno, il Muzeum Susch (1423 m) si trova proprio sulla sponda destra del fiume che scorre in mezzo al paese. L’unico di tutta la Bassa Engadina dove l’En passa così vicino: sul ponte mi rendo conto della sua forte presenza liturgica e terapeutica. Entrata a tutto sesto, porta nero antracite. Anfibolite, la parola del giorno, in testa da stamattina. Roccia metamorfica locale il cui termine, mai sentito prima, è saltato fuori in uno dei vari articoli entusiasti a proposito dell’opera acclamata del duo di architetti: Chasper Schmidlin – autore tra l’altro del delicato restauro di Stalla Madulain visitata quindici giorni fa – e Lukas Voellmy. Novemila tonnellate di anfibolite fatte saltare in aria per scavare un tunnel tra due edifici e creare spazi senza disturbare il paesaggio. Alla faccia dell’ego malato di maldestri architetti esibizionisti che ingombrano e inquinano la vista.
Lo stupore vero qui, a quanto pare, è da scoprire e nasce dalla roccia stessa. Alla fine del tunnel dove mi sono infilato subito senza preamboli, ci dovrebbe essere un muro di anfibolite umida. «La roccia, esposta all’ossigeno per la prima volta in millenni, ha incominciato a cristallizzarsi, i suoi residui lattei creano una sorta di neve indoor» scrive Alice Bucknell sulle pagine di Architectural Digest, rivista mensile centenaria di recente. È vero e così, per sport, asciugo le lacrime della roccia con i polpastrelli. Oltre alle tracce lattiginose, ci sono anche delle striature color ruggine, e per terra un bel bordo di pietre di fiume. Gli armadietti dove ficco lo zaino, sono tutti a muro, in cembro, mimetizzati alla perfezione. Risalgo in superficie, già disorientato dal tragitto labirintico, per andare diretto alla grotta-spettacolo. Slippery when wet avverte il cartello giallo sulla soglia con l’omino che sta per cadere. La roccia gocciola sul pavimento nero petrolio di questa grotta naturale usata un tempo dai monaci benedettini come cantina. Al centro, un cilindro in acciaio lucidatissimo, accentua la bellezza dell’anfibolite increspata e scorbutica. Qui Oliver Wainwright del «The Guardian» tira in ballo non a sproposito, il rifugio sotterraneo alpino dei cattivi nei film di James Bond. Di Mirosław Bałka è l’opera permanente intitolata Narcissussusch (2018) che gira impercettibilmente in senso antiorario.
Senza la roccia attorno non lascerebbe di certo senza fiato ma è un capolavoro se paragonata a quello che si trova nella stanza in fondo: fotografie di gerarchi nazisti. Non ci vuole molto a capire che il museo supera le opere esposte, però per non cadere preda dei miei gusti forse un po’ difficili e criticare, decido di concentrarmi solo sull’architettura appena premiata come Bau des Jahres 2019. Nella grotta è ritagliata una finestra che si affaccia sulla strada acciottolata e l’edificio dove si entra. Gironzolando, in una stanza buia, voltare le spalle alla videoarte – invecchia male, incomincia a fare la muffa –diventa poi necessario. Infatti non c’è gara con la sorgente – utilizzata un tempo dal birrificio dei fratelli Campell – che sgorga abbracciando tutta la parete rocciosa e forma un laghetto-aiuola. Salendo le scale, andando a zig zag nei vari spazi dove a tratti entra il paesaggio e i muri a secco ai quali è stata restituita l’anfibolite, il lavoro di cinque anni di Schmidlin e Voellmy risulta encomiabile fuoripista. Il merito è anche di falegnami del luogo, carpentieri, fabbri. L’auditorium dai soffitti altissimi è qualcosa, si vedono i ballatoi da dietro e i balconi sono traforati come i fienili: asso di quadri e punta di diamante. La biblioteca, tutta in cembro con scala scorrevole in ferro, è un sogno. Già l’odore ansiolitico del cembro predispone, poi le poltrone credo danesi, in teak, favoriscono ancora di più, la sosta. Balthus, Beuys, Bill, Klee, Ruscha, roba seria. Da una delle due minuscole finestre, svasata al massimo in stile engadinese, si vede passare il trenino rosso in lontananza.
Grażyna Kulczyk appare sulla soglia e mi sussurra «Hallo». È proprio come nelle foto: caschetto biondo alla Raffaella Carrà e pantaloni in pelle nera. Al bistrò del muzeum, creato da una meravigliosa vecchia stüva famigliare che sovrasta l’En nel punto in cui piega deciso verso est, sul davanzale, due vecchie bottiglie verdi di birra rivelano in rilievo l’esonimo tedesco quasi dolce, ufficiale fino al 1943, di Susch: Süs. Doppio espresso e una torta al cioccolato stile caprese che vale la pena. Dalla finestra entra l’En che scorre tranquillo un pomeriggio verso fine febbraio e un giorno, non lontano, sarà Mar Nero.