Musica che divide

/ 24.07.2023
di Simona Sala

Sere d’estate, in Francia. A poche manciate di chilometri l’una dall’altra si rincorrono due notizie, entrambe legate alla musica, entrambe legate ad artisti italiani. Il quotidiano francese «Nice Matin» annuncia l’imminente concerto di Ludovico Einaudi a Juan-les-Pins, in occasione della 62esima edizione di Jazz à Juan. Sempre «Nice Matin» riporta anche di come dodici associazioni riunite nel collettivo Touscitoyens06 si siano rivolte al sindaco di Nizza Christian Estrosi e al direttore dell’Opéra Bertrand Rossi per annullare l’invito a un’altra italiana, quella Beatrice Venezi chiamata a dirigere il concerto di Capodanno nella città affacciata sul Mediterraneo.

Ludovico Einaudi, il suo concerto, l’ha fatto, con le note che per una notte si sono rincorse a ridosso del Golfo, facendo da eco all’esistenzialismo scarno di Keith Jarrett, e giocando al contempo con i rimandi a Piazzolla. Con la sua ritrosia tutta piemontese, con la grazia e la tranquillità della sua esecuzione, il pianista ha confermato le sensibili scelte fatte in questi anni, contraddistinte da quel desiderio mai sopito di rendere il mondo un posto migliore, fosse anche solo per una persona. Non stupisce che abbia composto Elegy for the Arctic e l’abbia eseguita nel Mar Glaciale Artico dunque, che abbia composto, oltre che per il cinema, anche per Greenpeace, che si occupi dei ghiacciai e che si impegni per sensibilizzare sulla sorte del popolo iraniano.

Anche Beatrice Venezi, il suo, lo farà, così si è deciso a Nizza e così ha preteso lei. «Miserabili», ha definito i suoi contestatori, che la accusano di essere fascista probabilmente in virtù del padre Gabriele, ex dirigente di Forza Nuova e del fatto di avere eseguito a Lucca l’Inno a Roma di Puccini, liquidando con una scrollata di spalle chi le ricordava come nel frattempo la composizione sia stata anche l’inno dell’MSI. E forse i francesi nemmeno sapevano che la direttrice d’orchestra (che vuole essere chiamata «Direttore») è anche la consigliera del ministro della Cultura italiana Gennaro Sangiuliano, reduce da un’ospitata al Premio Strega dove lo si è visto annaspare per una domanda scomoda di Geppi Gucciari.

La Venezi però non si è limitata a chiamare «miserabili» i contestatori, ma li ha definiti delle «teste di c.», spronando i propri follower a palesarsi in suo sostegno. Subito, in Italia, ci si è prodigati a difendere l’indiscusso talento di Beatrice Venezi, tirando in ballo, oltre alla giusta libertà d’espressione, anche i nocivi eccessi di political correctness e cancel culture (anche se non è chiaro cosa c’entri qui) tipici della nostra era. Nessuno, però, nemmeno per un istante, si è chiesto dove siano finiti il valore universale della musica e la sua forza intrinseca nell’unire gli individui intimamente, se una professionista abituata a maneggiare – con indubbia competenza – i mostri sacri della musica, liquidi chi le contesta un’appartenenza ideologica più significativa di quanto lei (e molti in Italia) voglia ammettere, con un volgare insulto?

Probabilmente negli anni Vittorio Sgarbi (e di nuovo, la competenza non si tocca) ha fatto scuola, e quell’insulto elargito con generosità, quello sbeffeggio di chi la pensa diversamente, è diventato moneta di scambio tra chi intende la propria visione delle cose come unica possibile. E quindi, tra un Einaudi e una Venezi e il loro rapporto con il mondo che li circonda, vi sono anni luce, e, paradossalmente, se il primo resta pressoché inascoltato nei suoi gentili appelli per la salvaguardia della natura, la seconda, difesa da molti media, forse rappresenta al meglio l’epoca in cui viviamo, che, per stare al passo con i tempi, riesce nell’intento di trasformare anche la musica in «entità divisiva», scavando abissi e alzando muri.