Mulier sacra?

/ 18.05.2020
di Cesare Poppi

Il recente rimpatrio della cooperante volontaria italiana consegnata alle autorità italiane al termine di una prigionia fra il Kenya e la Somalia durata diciotto mesi ha dato vita da questa parte delle Alpi ad un italianissimo psicodramma collettivo che è andato ad aggiungersi al tamtam mediatico che ha accompagnato la vicenda a livello internazionale. Cominciamo dall’analisi visuale delle immagini del rientro. SR si è presentata al Presidente del Consiglio, al Ministro degli Esteri e a quante altre autorità statali sono andate a riceverla all’aeroporto di Ciampino indossando una «mascherina» e per il resto interamente coperta da una jilbab (tunica, vestito di foggia ampia che riveste le donne da capo a piedi) di color verde della tonalità tipica delle bandiere islamiche (vedi ad esempio l’Arabia Saudita o l’Algeria). Il Presidente del Consiglio indossava – come la maggior parte degli astanti – una «mascherina» di colore neutro – laddove il Ministro degli Esteri sfoggiava invece un’altrettanto araldica mascherina tricolore. Saluti a «toccogomito» che in tempi di contagio ha sostituito il «toccamano» (entrato quest’ultimo peraltro nell’uso Europeo solo in età moderna). Congratulazioni da parte di chi doveva incassare i dividendi di consenso politico, espressioni di soddisfazione per il ritorno a casa da parte della protagonista senza che – come è stato fatto subito notare – vi fossero parole di ringraziamento e riconoscenza. Dimenticanza dovuta all’emozione del momento? Atto deliberato? Ma perché poi? Parte il circo esegetico.

Ai più fra i commentatori peraltro è invece sfuggito il parallelo fra quelle sequenze visiva e le innumerevoli istanze di istantanee scattate in ambito ospedaliero ai tempi del contagio: stessa tunica-grembiulone che copre dalla testa ai piedi, stessa cuffia, casco, velo o quant’altro oltre alla mascherina – il tutto molto spesso della stessa tonalità di verde della jilbab in questione. Quella surreale, oggettivamente equivoca mimesi sartoriale fra «contagi» pur di diversa natura si è poi dispiegata in tutta la sua potenza evocatrice al momento della conferma che SR si era convertita all’Islam senza essere costretta e per libera scelta. E, sopra tutto, l’interrogatio princeps, dejà vu che sempre accompagna questa vicende: «Cui prodest/chi ha pagato?».

E qui è iniziato lo psicodramma che ha prodotto in una sorta di spirale senza fine reazioni che vanno dall’esegesi attenta e sottile, ai pronunciamientos validatori o censorii, alle discettazioni sulla genuinità o meno della conversione con mobilitazione di psicologi post-traumatici ed anche un Imam di Milano. E poi è stato un apriti cielo che ha visto susseguirsi prese di posizione, smentite, puntualizzazioni, accuse e controaccuse – accavallarsi dibattiti e j’accuse immediatamente posizionatisi a Destra o a Sinistra di uno spazio politico e culturale dove regnano invece una confusione ed uno smarrimento totali. Poi è partita una campagna d’odio senza limiti riversatasi sui social della quale non voglio entrare nel merito: pensate il peggio che si possa esprimere su di una donna giovane, che ha specificato sotto pressione di essere stata trattata bene dai suoi rapitori, di non essere pertanto incinta, di essersi convertita liberamente e non sarete lontani dalla lettera dei messaggi messi in rete. Un deputato dell’opposizione ha trovato modo di qualificare SR, in una comunicazione in Parlamento, come «neo-terrorista». Qui sta, ahinoi, il Paese che fu di San Francesco e di Cesare Beccaria.

La legge romana dichiarava «Homo Sacer» chi si fosse macchiato di un crimine talmente grave da non esistere punizione che potesse retribuirne la colpa. Costui – si trattava in genere di spergiuri – veniva «dato agli Dei» che facessero di lui secondo la loro volontà. Destituito di ogni prerogativa di umanità, sociale, civile, parentale, era alla mercè di chi si prendesse la briga di ucciderlo: l’omicida non avrebbe sofferto conseguenze, anzi. Chi scrive si è trovato almeno due volte in terra africana con la bocca di un kalashnikov infilato in un’orecchio o in una narice. Il sollievo; l’euforia, l’ottimismo, la bonomia – persino la riconoscenza verso chi ti ha risparmiato – che invadono l’animo a pericolo scampato è difficile raccontare. Cosa succeda in quegli istanti investe gli strati più profondi radicati in una volontà di vivere che ritengo etologicamente fondata. Indicibile allora come sensazione e ancora più elusiva come ricordo che si vorrebbe cancellare. Se questo si consuma in pochi istanti, cosa possa succedere in diciotto mesi è inimmaginabile. Così, fra il Braccio della Morte e la Sindrome di Stoccolma si gioca il riscatto degli Homo Sacer di ogni tempo e paese. Il resto, l’odio che distrugge, non ha – quello sì – diritto di cittadinanza. Mai.