Si è tornati a parlare, nei giorni scorsi, di «iconoclasti», anzi di «nuovi iconoclasti», la precisazione è d’obbligo. Quella parola, infatti, sembrava collegata, per così dire esclusivamente, a episodi di tragica violenza, avvenuti in Medio Oriente, e dai quali s’intendeva prendere le distanze. Nel 2001, esempio ormai storico, la furia iconoclasta dei Talebani si era abbattuta sui Buddha di Bamiyan, nel 2015, l’ISIS aveva preso di mira le preziose vestigia di Palmira. E, si rimane sempre in zona, citando casi di iconoclastia prettamente politica: come fu la demolizione della statua di Saddam Hussein, a Baghdad, nel 2003. Una sorte che, del resto, era spettata, dopo il 1989, alle tante effigie di Lenin e di Stalin, collocate nelle piazze e nei musei dell’URSS e dei paesi satelliti. In questi episodi, il gesto, in sé violento, di abbattere un monumento o sfregiare un ritratto, aveva chiare motivazioni d’ordine ideologico e morale: era il grido dell’oppresso che si liberava dall’oppressore. Esisteva, insomma, un nesso ben visibile fra causa ed effetto.
Qualcosa che, invece, è andato perso, strada facendo, mentre l’ondata delle proteste piazzaiole e del revisionismo storico si diffondeva in Europa e negli Stati Uniti, come dire alle radici stesse della democrazia. Proprio, su questo terreno, per definizione tollerante, ci si trova alle prese con la generazione, campione d’intolleranza, dei nuovi iconoclasti, nel senso completo del termine: militanti, impegnati a combattere sia con le teorie, per altro vaghe, sia con i fatti, invece concreti: colpi di piccone, lanci di pietre, colate di vernici, contro obiettivi inattesi e innocenti. Tanto che diventa difficile decifrare gli obiettivi di simili manifestazioni. Più che contro un nemico preciso, di cui colpire la rappresentazione in marmo, bronzo o su tela, ci si oppone a quel che quel personaggio appare, attraverso la lente e la sensibilità attuali. Quest’equivoco è ormai un metro di valutazione sempre più diffuso negli USA, e applicato persino ai padri fondatori della democrazia, Gorge Washington, Abraham Lincoln, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt. Tutti, adesso, sotto accusa perché possedevano schiavi, com’era in uso al loro tempo. E, quindi, si teme che persino i loro giganteschi ritratti, scolpiti nel granito sulla Rushmore Mountain, nel sud Dakota, possano diventare un obiettivo per gli iconoclasti.
Intanto quest’ondata di giustizialismo a posteriori ha colpito persino Cristoforo Colombo, di cui si è rovesciato il simbolo: non impersona più lo spirito di avventura e di scoperta, a cui dobbiamo la conoscenza del mondo, bensì la crudele aggressività del conquistatore e persecutore di stampo razzista. Ne stanno subendo le conseguenze le sue raffigurazioni: statue e dipinti che, dalle piazze, dai parchi, dai musei, finiscono nei solai. Tutto ciò con pretesti lodevoli, cioè schierarsi dalla parte delle vittime, ma con effetti sconcertanti. Si scompagina, così, il corso della storia, si alterano le fisionomie di personaggi che erano quel che le epoche imponevano di essere. Si sta, insomma, assistendo a una forma egoistica di riadattamento di eventi e personaggi ai nostri gusti di contemporanei.
Si tratta, evidentemente, di un fenomeno, o moda, che ha toccato vertici paradossali in USA. In alcune università, gruppi femministi hanno espresso il loro disappunto nei confronti di un insegnamento filosofico, incentrato su «uomini tutti bianchi»: citando Platone, Cartesio, Kant, Hegel. Il contagio, comunque, si diffonde. A Oxford, la statua di Cecil Rhodes, antico benefattore dell’università, è stata rimossa perché a lui era intitolata la Rhodesia, già simbolo di colonialismo. Mentre al King’s College, i ritratti dei padri fondatori dell’istituto sono stati tolti da una parete, trasformata in «Muro delle diversità». E che sarà mai.
In Svizzera, dov’è di casa la moderazione, più che di iconoclastia si deve parlare di ironia nei confronti dei miti nazionali. Max Frisch si era concesso il lusso di smitizzare il nostro eroe più leggendario, con il libro-pamphlet Guglielmo Tell per le scuole. Fu accolto elveticamente: con umori contrastanti.