Mons Egere

/ 10.08.2020
di Cesare Poppi

«Prego, Herr Barrington, dopo di lei!». Così, attorno a mezzogiorno dell’11 agosto 1858, dopo nove ore di ascesa, gli sherpa svizzeri Chistian Almer e Peter Bohren, cortesissimi, cedevano il passo e dunque l’onore del Primo in Vetta al loro cliente Charles Barrington. Barrington, da buon irlandese, aveva evidentemente più voglia di scalare di quanto avesse denari. Pare infatti che le sua prima intenzione fosse stata quella di scalare il Matterhorn (Cervino). Non avendo però le finanze per viaggiare fin là decise di rimanere in zona e compiere invece la prima ascesa di un’altrettanto celebrata montagna, quell’Eiger, nelle Alpi bernesi, destinato a divenire un’icona dell’alpinismo mondiale.

Un documento del 1252 si riferisce al picco come «mons Egere», ma non vi è indicazione del come, già allora, la montagna avesse acquisito quel nome fatale che si sarebbe guadagnato più tardi come killer di alpinisti. L’Orco (Eiger essendo variante dialettale del tedesco Ogre) è stato peraltro associato al latino «acer», che significa affilato, appuntito. Ma il fascinoso appellativo tedesco ben si accompagna alle altre due celebrate vette della catena che sono la Jungfrau (la Vergine) e il Mönch (il Monaco). Il Monaco, l’Orco e la Vergine: una sorta di Trinità che ben si presterebbe come titolo di un film di Sergio Leone con gli scarponi al posto degli stivali. E leggendario l’Orco è diventato non tanto per la salita standard alla sommità dei suoi 3,967 metri lungo la rotta Ovest – la stessa scelta da Barrington quando ancora l’agone delle «prime ascensioni» non imponeva ascese sempre più impegnative e stravaganti per il solo obiettivo di «essere primi». Come tutti sanno, l’Eiger è noto semplicemente con il nome – ora brand di successo di attrezzatura sportiva – di North Face, «la Parete Nord», in tedesco Nordwand o meglio, orchescamente parlando nel gergo scaramantico e un po’ guascone degli alpinisti Morwand: «la parete assassina». 

Milleottocento metri di strapiombo interrotti all’altezza di 2899 metri dallo sbocco in parete del tunnel della Stazione ferroviaria di Eigerwand scavata all’interno della montagna. Quasi uno scherzo surreale (parola di Altropologo) per una delle tante bizzarrie dell’umano spirito: da lì partono di quando in quando le spedizioni di soccorso per alpinisti in difficoltà (e peggio) che preferiscono salire a piedi piuttosto che usare la comoda e suggestiva ferrovia. Si fa per dire…

Fattostà che dal 1935, anno del primo tentativo di salire la Parete Nord, almeno 64 alpinisti sono morti nel tentativo di fregiarsi dell’impresa. La sequenza recita come un tragico rosario. 1935: Karl Merhinger e Max Sedlmeyer, primi a tentare la salita, vengono trovati morti assiderati a 3300 metri in quello che ancor oggi è noto come «Bivacco della Morte». La spedizione di dieci alpinisti tedeschi ed austrici che l’anno seguente ci riprovarono fu lentamente decimata da incidenti dovuti al maltempo ed abbandoni. Gli ultimi quattro componenti il gruppo – austriaci e bavaresi – decisero di tentare comunque. Resisi conto dell’impossibilità dell’impresa cominciarono la discesa e furono carpiti della montagna uno dopo l’altro. Il racconto della lenta agonia di Toni Kurz, ultimo superstite della cordata deceduto per assideramento a pochi passi dei suoi soccorritori incapaci di raggiungerlo è una delle pagine più agghiaccianti della letteratura alpinistica. Un altro tentativo nel 1937 dovette ugualmente fallire ma stavolta senza vittime. Finalmente, il 24 Luglio 1938, Anderl Heckmair, Ludwig Vörg, Heinrich Harrer e Fritz Kasparek si associarono e in tre giorni di strenua ascesa fra neve e valanghe giunsero in vetta – Harrer senza nemmeno l’aiuto dei ramponi da ghiaccio.

L’epoca del colonialismo si sviluppò in due direzioni. La prima consistette nell’esplorazione «orizzontale» delle zone sconosciute della terra e dell’inclusione dei suoi abitanti – a vario titolo – nella crescente koinè globale. L’altra direzione fu quella della conquista «verticale» della montagna. Su questi assi ortogonali si consuma la vicenda culturale – in senso simbolico ed ideologico – dell’autoaffermazione dell’Io borghese emergente con la rivoluzione industriale come Signore della Natura e dei Naturvölker – i «popoli di natura». Il famoso dipinto di Caspar David Friedrich Die Wanderer (1818) ci mostra un Signore in un elegantissimo abito da pomeriggio con bastone da passeggio svettare sopra un mare di nubi in vista di orizzonti alpini dai quali emergono picchi lontani e misteriosi. Il Wanderer (letteralmente «colui che vaga» – «il camminatore» non renderebbe il senso profondo del termine tedesco) è visto di spalle. Così da suggerire come la sua vista panoramica sia – anche – il punto di vista di chi guarda il quadro e l’orizzonte al quale esso invita lo sguardo. Quell’orizzonte che ha segnato il destino – o la follia? – dei sessantaquattro Wanderer dell’Orco. Requiescant