Mi si nota di più se lavoro sempre o se viaggio senza sosta? Il noto dilemma di Nanni Moretti potrebbe anche essere declinato così, dopo tutto. Meglio un’agenda piena o vuota? Meglio essere sempre indaffarati o mostrare un sovrano disprezzo per il lavoro?
Già nel 1899 il sociologo statunitense Thorstein Veblen nella sua opera La teoria della classe agiata spiegava come molti consumi non hanno un’utilità pratica ma servono piuttosto a testimoniare il proprio status sociale. Oggi il concetto ci sembra ovvio, tanto che parliamo per questi beni di status symbol, ma ai tempi fece scalpore.
Prima della rivoluzione industriale infatti, e per larga parte della storia umana, la disponibilità di beni materiali fu sempre scarsa, anche per i più ricchi. Questi allora ostentavano l’ozio vistoso (è sempre Veblen), ovvero si astenevano dalla fatica per mostrare di non aver bisogno di guadagnare. E quando sentivano comunque il bisogno di far qualcosa, si dedicavano ad attività palesemente inutili, come la musica o la conversazione elegante nei salotti.
Molti viaggiavano attraverso tutta l’Europa a lungo, anche per anni, come i nobili inglesi al tempo del Grand Tour. Per questo, quando intorno al 1830 fu «inventato» il turismo, ovvero il piacere di andarsene in giro sulle nuove ferrovie per il puro gusto di farlo, le classi elevate si convertirono in massa. E così mentre i nuovi ricchi, gli industriali, restavano sempre in città per prendersi cura delle fabbriche e degli affari, respirando la stessa aria mefitica dei loro dipendenti, tutti gli altri benestanti – possidenti, religiosi, intellettuali – sciamavano nel Mediterraneo, dividendosi tra l’estate in Svizzera (o alle terme) e l’inverno in Costa azzurra. «Gli Inglesi – scrisse Théophile Gautier nel 1840 – sono ovunque tranne che a Londra, dove ci sono solo Italiani e Polacchi». E ancora George Elliot nel 1869: «L’unica cosa eccezionale che oggigiorno la gente può raccontarti di aver fatto, è di essere rimasta a casa».
Nel corso del Novecento però il consumismo detta nuove regole. E quando i negozi si riempiono di infiniti prodotti a basso costo, la ricchezza si ostenta con beni di marca – orologi, gioielli, automobili – il cui costo è sproporzionato rispetto al loro reale valore; in fondo proprio per questo attestano l’agiatezza dei compratori.
Sino a qualche anno fa lavorare tanto, essere sempre impegnati, era un simbolo di prestigio. Le persone di successo incastravano nelle agende impegni senza fine; i viaggi e le vacanze restavano confinati in pochi periodi dell’anno, ben delimitati da prospetti ferie minuziosi e implacabili come un piano militare. Ma nulla è per sempre. Col tempo anche questo sfrenato attivismo sta cominciando a stancare. Lo spiega bene il personaggio di Tyler Durden in un celebre monologo del film Fight Club: «La pubblicità ci fa inseguire le macchine e i vestiti, fare lavori che odiamo per comprare cavolate che non ci servono. (…) Le cose che possiedi alla fine ti possiedono».
Ai ricchi non basta più differenziarsi dai poveri, anche perché ci sono ricchi e ricchi. Qualche giorno fa, nel più lussuoso albergo di St. Moritz, il direttore mi ha spiegato che «da noi vengono quelli che non vogliono far parlare di sé, quelli che non devono dimostrare niente». Un lusso minimalista, raffinato si contrappone a quello pacchiano degli ultimi arrivati.
Dalle classi elevate, per imitazione, i nuovi comportamenti si diffondono verso il basso. E se passare dalla teoria alla pratica non è facile, sui giornali si legge sempre più spesso di Big Quit e Great Resignation, ovvero di persone che si licenziano senza avere all’orizzonte un altro lavoro, perché la carriera da sola non basta più a dare senso all’esistenza. «Mollo tutto e cambio vita» sembra essere la nuova parola d’ordine nelle conversazioni in rete. E chi lascia la sicurezza del posto fisso spesso si mette in viaggio attorno al mondo, magari con un furgone usato, restaurato personalmente con amore, o una vecchia barca a vela, mentre altri a migliaia, meno coraggiosi, restano nei ranghi ma ammirano in segreto.
Il cerchio si chiude. L’ozio vistoso di Veblen, nella forma del viaggio, torna a essere un elemento di distinzione, come in fondo è sempre stato: Ulisse era un re e un vagabondo.