L’Altropologo si era ripromesso di non parlarne mai. Si sarebbe cucito piuttosto la bocca per nascondersi in un mutismo sdegnoso pur di non essere trascinato a battersi in quell’arena del tutti contro tutti nella quale – almeno al di qua dello spartiacque – sembra non esista ormai altra regola del gioco che non sia darsele di santa ragione, laddove la prima vittima sembra essere, appunto, la ratio ovvero la Ragione di Rousseau. E invece ahimè, mano sulla coscienza, gli tocca.
Da scolaro non proprio modello ma nemmeno dei peggiori ricordo le giornate di vaccinazione come eventi speciali. Si annusava nell’aria: l’arrivo a scuola del team di infermiere, le classi riunite e riorganizzate – maschi da una parte, femmine dall’altra (per una volta non si sarebbe litigato) – i carrelli coi contenitori delle siringhe sterilizzate (allora erano come bomboloni da gas), qualche singhiozzo preventivo da parte dei più codardi – subito zittiti dagli stessi compagni pena l’inevitabile gogna e poi avanti senza paura. E sì che gli aghi di allora erano pali della luce. Prevaleva però in tutti la fiducia nelle parole solenni della Maestra che così nessuno sarebbe stato sciancato dalla poliomielite come il Toni o costretto a passare le estati in sanatorio col «mal sottile» (il solo nome, ricordo, non mi faceva dormire di notte) come l’Adele che ricordo ancora confinata nel banco là in fondo fino a quando, un certo ottobre, non tornò più a scuola. E la Maestra allora ci raccontava di Pasteur e Madame Curie – e poi anche, per contro, della Peste e degli Untori, degli Ebrei ingiustamente accusati di diffondere il morbo… E chi di noi, col magone, ad occhi spalancati, non sognava allora che sarebbe diventato un medico, un ricercatore… foss’anche per quanto bastasse a scoprire una pillola che permettesse al Toni di venire a giocare a pallone? Ricordo che il giorno che mi tolsero le tonsille – a tradimento perché quella sì che senza anestesia non era una passeggiata – e cominciarono a farmi mangiare gelati a go-go per aiutare, credo, il processo di cicatrizzazione: mia madre mi esortò a non piangere perché così non mi sarei mai ammalato di un morbo mortale. E io che pensavo che se invece avessi pianto mi sarei mortalmente ammalato stoicamente divorai un gelato dietro l’altro anche se faceva un male boia. Insomma, ci si fidava. Si sopportava perché – ci dicevano quando i Missionari ci chiedevano di rinunciare ad un soldino per far vaccinare anche i bambini in Africa – un giorno la poliomielite e la tubercolosi sarebbero state sconfitte, finite. Insomma: ci si credeva.
Poi è difficile capire cosa sia successo. E qui un’archeologia del sapere collettivo aiuti lo sguardo altropologico. Nel 1976 quel personaggio controverso che fu Ivan Illich col suo Nemesi Medica catalizzava la sempiterna diffidenza nei confronti del sapere medico che è l’universale, bertoldesco medice, cura te ipse per sdoganare poi a livello dell’industria culturale paramedica ogni sorta di alternativa alla medicina «ufficiale» (oggi diventata agli occhi di alcuni medicina di regime) coniugata con l’altrettanto variegato sistema di credenze che fiorisce oggi nell’interfaccia fra «psiche» e «soma» (il corpo), spazio culturale e immaginario nel quale ciascuno si sente intitolato per inalienabile diritto individuale a mettere dentro quel che (crede) di aver compreso. Strana e paradossale vicenda storica – quella sì una nemesi – quella dei «diritti». Da che storicamente nacquero per definizione sociali ed universali proprio in quanto sociali – i Nostri diritti – diventano oggi individuali nel senso di «privati» anche all’interesse generale: i Miei diritti di pensarla come voglio. O tendono comunque a farlo. Fra una scienza medica (ancora? Per ragioni di ordine pubblico? Per incompetenza o malafede politica?) trincerata dietro un’anacronistica «verità assoluta» (quella medica è un’arte ancora più in/non-finita della matematica) e le autoproclamatesi «minoranze» che si appellano al diritto di non contribuire a quello che è intrinsecamente provvisorio, falsificabile, perfettibile, ma sempre e comunque, il meglio possibile, scorgo oggi ancora dai banchi là in fondo lo sguardo acquoso del Toni e le occhiaie profonde di Adele.